sabato 29 settembre 2007

GIANGUEL E IERGOEGEN

Ho trovato qualche appunto preso tempo fa e vorrei trattare brevemente un argomento che, anche se l'ho già fatto in passato, è meritevole di altre osservazioni: si tratta dei cosiddetti gerghi furbeschi.
Il "giànguel" è un gergo ormai quasi scomparso e del quale restano solo poche parole che la gente talvolta dice, ma forse non sa che esse fanno parte di un idioma ben più articolato e molto usato in passato, quando entro certi ambienti circoscritti c'era la necessità, o meglio, la volontà di non farsi capire da chi di quell'ambiente non faceva parte. Ho trovato notizie in merito grazie al solito Menarini, il quale, negli anni quaranta, pubblicò i suoi "Gerghi bolognesi", libro ahimé esaurito che non ho mai avuto il piacere di consultare per intero. Le parole che restano sono del tipo "fanghi" (scarpe), "tap" (abito), "stufilàusi" (tagliatelle), "strézzi" (sigarette) e poche altre, mentre paiono ormai in disuso altre come "strìs" (pane), "batintén" (orologio), "quài" (portafoglio), "sc'fón" (calzini), "giàz" (fiammiferi), "lisa" (mantello) e tante ancora, usate dal popolino, oltre a quelle usate, ad esempio, dai muratori: la "manèra" (donna), "ch'la s'istànzia pr'i là" (che passa da quella parte) "scarpén-na pr'i tu visi" (va' per i fatti tuoi),ecc., parole e frasi che ho udito da mio padre e da pochi altri ormai anziani, che però essi stessi da anni non utilizzano più.
Lo "iergoegén", pure ricordato dal Menarini, è ciò che lui stesso definisce un "gergo meccanico", di quelli cioè che non si basano su termini speciali, ma utilizzano quelli normali del bolognese (o del "giànguel"), intervenendo su di essi con una… operazione meccanica di divisione e di aggiunte fonetiche! Il parlante deve mentalmente dividere a metà la parola (ad es.: "gergo" diventa "ge-rgo"), poi deve pronunciare prima la seconda metà e dopo la prima (ed es: "rgo - ge"), infine deve aggiungere un prefisso ed un suffisso fonetici, come suggerisce l'orecchio, senza dimenticare l'importantissima "e" eufonica di congiunzione ( es.: ie- e -n) ed ecco che, magicamente, la parola "gergo" diventa…"iergoegén"!
Sembra una cosa da pazzi (e forse lo è!), ma un certo allenamento ed un certo orecchio, portano a parlarlo correntemente e ad intendersi perfettamente, tra lo sconcerto di chi non lo capisce!
Non voglio ora trattare a fondo la materia, anche perché già lo ha fatto chi è ben più competente, tuttavia ho voluto ricordarla, prima che ne sparisca anche l'ultima traccia, poiché in tutta la mia vita ho inteso parlare questo…"iergoegén" da mio padre (che l'imparò da ragazzo quando era garzone alla “Invulnerabile”, allora famosa fabbrica di serrande),da mia zia Gilda e dal fabbro di via Saviolo a San Lazzaro, Walter Berselli, ciò che è stata una vera sorpresa! Altri non ne ho uditi mai.
Voglio anche aggiungere che del cosiddetto "furbesco", oltre questi gerghi, fanno parte anche centinaia di espressioni che io stesso ho citato spesso e di cui sono pieni tutti i libri che trattano il nostro dialetto: una per tutte (che mi è balenata in mente ora) è "s'cataràggna in piaza?" che significa "ci troveremo in centro", ma che gioca sulla parola "catères" (trovarsi) e "scatarèr" (tossire e anche sputare), ciò che si dice appunto quando qualcuno tossisce in modo convulso. Una volta ridevano così!
Torno allo "iergoegén" per ricordare i tanti discorsi tra mio padre e me, ogni volta che non volevamo farci capire dagli altri, certi del fatto che sarebbe stato difficilissimo trovare persone in grado di capirci!
Mio padre mi parlava in modo spedito ed io, pur capendo ogni parola, stentavo parecchio a rispondere e non sempre lo facevo bene, poiché lui stesso non riusciva a capirmi e mi correggeva!

Gli dicevo: "iaemén a iàrrec'cón ióchepón al iergoegén,
mó a iapéssecàn ièsiequén iottetón"
che significa: "mé a c'càrr póch al gérgo, mó a capéss quèsi tótt"
cioè: "io parlo poco il gergo, ma capisco quasi tutto"


e, come mi aveva insegnato lui, quando qualcuno mi diceva di parlare in modo più chiaro e possibilmente in italiano, io traducevo così:
"iaemino a iorrec'cone iochepone il iergoegino,
iaemone a iapissecano iasiequone iuttetone!"


E ridevamo divertiti, ma per gli altri non era cambiato nulla!
Non so che importanza possano avere queste cose nel campo della scienza, delle lingue, della cultura, ma so di certo che queste erano cose veramente, unicamente ed inequivocabilmente NOSTRE, che le abbiamo praticamente ormai perdute, come tra poche generazioni perderemo il dialetto stesso e così avremo più tempo per le altre cose che saranno più importanti nel campo della scienza, delle lingue e della cultura, ma che certamente non saranno più NOSTRE!
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Paolo Canè

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