martedì 25 settembre 2007

MOGLI E BUOI…

E non è che uno dei tantissimi riferimenti a questo maestoso erbivoro,al quale l’uomo ha prima reso un… brutto servizio e poi lo ha esaltato nei secoli, forse più di qualsiasi animale domestico. Dal bue Api degli Egizi, presso i quali fu addirittura un dio, alla ode carducciana “T’amo o pio bove”, il bue è stato citato in innumerevoli parole: da Bucefalo (testa di bue) a bustrofedico (tipo di scrittura che imita l’aratura dei campi) ad ecatombe (sacrificio di 100 buoi) all’oeil de boeuf (tipo di finestra usata in Francia) e in mille altre occasioni, con riferimenti proverbiali che parlano di “stalle chiuse quando i buoi sono scappati”, di “legare il carro davanti ai buoi” ecc. ecc.
Perché tanta nomenclatura e letteratura? È facile: perché il bue, fin dal tempo in cui le società agricole primitive lo usavano per l’aratura, è stato un mezzo basilare per la sua forza e per la sua docilità. Non intelligente come altri animali, forse, tanto da produrre modi di dire poco edificanti, come “popolo bue” o “testa di bue”, ma utile, anzi, indispensabile. Il “Foro boario”, toponimo che esisteva anche a Bologna, era la piazza nella quale si facevano le contrattazioni per la vendita dei bovini.
In bolognese è “al bà” (o “al bò”, ma io preferisco la pronuncia aperta, come s’addice ai bolognesi di città) con il plurale inequivocabile “i bù” o, come simpaticamente dicono o dicevano i vecchi medicinesi, “i bùa”, ma lo dicono solo a Medicina!
A proposito di differenze di pronuncia, voglio brevemente ricordare ciò che ho già scritto diverse volte altrove, e cioè che molte parole vengono spesso scritte e anche pronunciate con la “ò” o con la “à” a seconda dell’uso dei parlanti. Personalmente preferisco scrittura e pronuncia aperte, ma non è detto che io abbia ragione! Nessuno ha mai stabilito una regola e chi la volesse stabilire oggi farebbe un esercizio inutile, oltre che arbitrario ed opinabile! Meglio che ognuno faccia come si sente di fare.
L’uomo addetto alla cura dei buoi era chiamato “al bióich”, parola con la quale i cittadini hanno poca dimestichezza, ma che ha una storia etimologica interessante.
Il corrispondente italiano “bifolco” deriva da “bufulcum” che, a causa della “f”, gli studiosi presumono d’origine osco-umbra o etrusca, alla quale i latini contrapposero “bubulcum” (colui che guidava i buoi nei campi), da cui i latinismi “bobolco” e “bobolca” i quali, a loro volta, portano a “biolca”, una misura terriera ancora in uso nelle nostre campagne ed è quasi certamente la stessa via che porta a “bióich”.
Un’altra misura terriera, pure ancora in uso da noi, è la “turnadùra” (tornatura) e anch’essa ha a che vedere coi buoi, poiché “tornare” significa il “girare” dei buoi durante l’aratura. “Turnadùra” e “bióica”, misure non esatte, poiché variano da zona a zona, erano probabilmente grandi quanto il terreno che i buoi riuscivano ad arare in una giornata di lavoro.Dunque, a quanto pare, sono rimaste nella nostra lingua e nei nostri dialetti molte parole e molti proverbi o modi di dire che hanno a che fare con i buoi, ma ci si chiede: dove sono andati a finire i buoi? Chi spiegherà ai nostri nipoti che il bue era un animale grande, grosso, utile e buono, così tanto diverso da quello che vedono sui banchi delle macellerie?
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Paolo Canè

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