lunedì 9 luglio 2007

L’ÀRAB (n. 38)

Ón al dìs con un amìgh:

"Pànsa té, una nót a Casablanca ai éra par la strè da par mé, quànd a sént scarpazèr de drì da mé: am vólt e a vàdd un arab èlt quèsi dù méter ch'am tnèva drì. Alàura am sàn méss a andèr pió fórt e ló drì, am sàn méss a córrer e ló sàmper drì. A un zért mumànt a svólt int una stradlén-na e, quànd a arìv in fànd, am acórz ch'l'éra asrè. Am sàn vultè e l'àrab am éra bèle adòs: al s'avré al stanlàn e al tiré fóra un afèri ch'al parèva un matarèl.
Par furtón-na ch'am l'à cazè int al cùl, parché s'am'al dèva in tèsta am cupèva!"

AL FATURÉN DAL FARMAZÉSTA (n. 37)

Un farmazésta al ciàma al faturén e ai dìs:
"Cìnno, ai ò d'andèr vi pr'un'àura, stà té drì al bànch, tànt t'sè bèle incósa ormài"
"Chal vàga pùr, ai pàns mé".

Dàpp un'àura:
"Alàura, cùmm'it andè?"
"Benéssum, almànch a cràdd".
"Parché? Chi é v'gnó?"
"Prémma l'é v'gnó un sgnàuri ch'l'avèva mèl à la tèsta: ai ò dè un casè, òia fàt bàn?"
"T'è fàt benéssum, e pò?"
"E pò l'é arivè un v'ciàtt ch'l'éra un póch stéttich: ai ò dè un purgànt, òia fàt bàn?"
"T'è fàt benéssum, e pò?"
"Ecco, dàpp l'é arivè una sgnàura tótta elegànta con una bèla plézza, la l'à avérta e sàtta l'éra tótta nùda e l'à m'à détt: "Vàddet quàssta qué? Bàn, l'é bèle trì àn ch'l'an vàdd un càz!"
"Alàura?"
"Alàura an sò brìsa s'ai ò fàt bàn, mó ai ò dè dal colìrio!"

LA ZÌZLA (n. 34)

"La màstra la l'à con mé" al dìs Pirén a só pèder "L'am fa sàmper del d'mànd difézzil"
"Mó nà, Pirén, l'é una tó idèa"
"A sé? Alàura vén mò a scóla a sénter egli interogaziàn che d'màn ai é i esàm!"

Al dé dàpp al pèder al và a scóla e al sént el d'mànd che la màstra la fa a só fiól:
"Pierino, quanto fa due più due?"
E ló "Quattro".
"Bravo e quanto fa quattro più quattro?"
Pirén al dà un ucè a só pèder, ai pànsa un pó e pò al dìs: "Otto".
"Bravissimo. Adesso dimmi quanto fa otto più otto".
Pirén as vólta vérs só pèder e al dìs: "O bàbbo, sént mò qué che zìzla!"

Proverbio n. 65

Avàir l’óca mórta.
Inerzia sessuale maschile.

Proverbio n. 64

Avàir la pózza (la càca) sàtta al nès (Che càca, sgnàur Felìz!).
Dicesi di chi è altezzoso e di chi si dà delle arie.

Proverbio n. 63

Avàir la fàza da cùl.
Avere una faccia rubiconda!

Proverbio n. 62

Avàir la cagarèla int la làngua (int la pànna).
Essere troppo loquaci (o grafomani).

Proverbio n. 61

Avàir la bàcca lèrga ch’la pèr la fìga d’na sumàra.
Essere un grande chiacchierone.

I s'fón

Forse, piuttosto che s’fón, dovrei scrivere sc’fón, poiché il suono di questa parola (ormai in disuso) è praticamente uguale alla -sc italiana più che alla nostra semplice, seppur pesante, -s.
E' questo un termine che ho sentito usare da mio padre, spesso in tono scherzoso come generalmente si fa con parole del gergo, da pochi altri vecchi bolognesi e che ho trovato di recente sul citato articolo della signora Nobili, ma che non è mai stato riportato né dal Menarini, né dai dizionari in mio possesso, né da altri autori del nostro dialetto. Però credo d'aver trovato il corrispondente italiano, usato ancora 4 secoli fa, nel bel libro della prof.ssa Niccoli, sulla "Bologna del seicento". La parola è "scoffoni" (oggi sconosciuta anche ai dizionari italiani) e sono quasi certo che essa sia la…antenata in lingua di sc’fón, sia perché essa giustifica la -sc del termine dialettale, sia, soprattutto, per il significato che era quello di "calzerotti" (poi "calzini", "calzettoni" in generale) che a quei tempi erano parte importante di ogni corredo ed erano anche ciò che oggi definiremmo "articoli da regalo".
Ebbene, prendo questa parola in rappresentanza del dialetto bolognese che non si parla più e che sarebbe assolutamente inutile e falso voler ripristinare nella parlata di oggi! La si può usare per la rima in -ón di una filastrocca, la si può usare per scherzo, con quell'ironia con la quale ogni persona, anche di buona cultura e non necessariamente bolognese, cita ogni tanto termini del proprio dialetto, la si può studiare e classificare (come sto facendo io adesso!) nell'ambito di uno studio sulle parole in disuso, ma chi vuole parlare seriamente dialetto nel 2000 (ma anche dal 1950 in poi) deve usare "calztén"!
Ribadisco pertanto l'inutilità, ma soprattutto la falsità di voler usare termini ormai scomparsi in un contesto moderno. Del resto, la necessità di non fare confusioni temporali è irrinunciabile per ogni argomento: se vogliamo studiare, ma soprattutto capire, la storia, la politica e qualsiasi altra disciplina,se vogliamo capire il perché dei fatti, il perché dei modi, in quei luoghi e in quei momenti, dobbiamo necessariamente inquadrarli nel loro tempo ed esaminare tutto ciò che accadeva intorno negli stessi momenti! Solo così ci potremo spiegare, solo così potremo capire le cose. Il resto è pura fantasia!
Occorre perciò stare molto attenti, quando si studia o si esamina o si critica qualsiasi cosa a non fare confusione tra ciò che appartiene a tanti anni fa e ciò che abbiamo oggi, anche se si tratta di cose apparentemente simili o uguali o comunque confrontabili, ma lo sono solo …apparentemente!
Può capitare che ad un risultato simile o addirittura uguale ci si arrivi per due strade completamente diverse e questo è uno dei grandi tranelli dai quali bisogna guardarsi, specialmente nel vasto campo dell'etimologia, insidioso ed ingannevole più di un campo minato! Ma è così in tutto, anche in politica: non si può giudicare alla stessa stregua, poniamo, un regime totalitario instaurato cent'anni fa dal popolo X ed uno instaurato oggi dal popolo Y: due motivi diversi, due mentalità diverse, due scopi diversi e sarebbe troppo facile, oltre che falso e superficiale, classificarli entrambi sotto la lettera "d" di dittatura! Ma torniamo al dialetto.
Questo confronto sc’fón-scoffoni è intrigante sia perché si tratta di termini ormai scomparsi da tutti i dizionari dialettali ed italiani (almeno da quelli che ho consultato io) e si ha perciò l'impressione di avere a che fare con rari ed affascinanti reperti archeologici, ma soprattutto perché il confronto mi dà la possibilità d'interrogarmi sull'antico dilemma linguistico e dialettale "se sia nato prima l'uovo o la gallina"!
Sarà sc’fón che è stato italianizzato in "scoffoni" o sarà il contrario? Non c'è nessuno che me lo possa dire, almeno io non ho possibilità di fare ricerche, ma sarebbe veramente interessante saperlo. Per conto mio, sono abbastanza convinto della prima ipotesi, poiché, come già ripetuto più volte, i dialetti si sono venuti a formare con la fusione del latino con dialetti preesistenti o susseguenti, PRIMA che la lingua italiana fosse "inventata". Molti secoli prima e perciò presumo che nel bolognese esistesse la parola sc’fón, prima di "scoffoni", di "calzerotti" di "calzini" e anche di calztén! Ma lo presumo soltanto e mi guardo bene dall'affermarlo, anche perché ogni ipotesi è plausibile: che "scoffoni" o qualcosa di simile sia un'antica parola italiana caduta in disuso, o una voce del basso latino, o parola toscana o francese o proveniente da qualsiasi lingua o dialetto, insomma, senza conferme, senza studi approfonditi in etimologia non si può dire assolutamente nulla, anche se a tutti piacerebbe avere la fortuna del macellaio Schliemann che scoprì Troia quasi per gioco o del biologo Fleming che scoprì la penicillina quasi per caso o di Colombo che scoprì l'America quasi per disgrazia!
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Paolo Canè

I Dinosauri

Una cosa, relativa al dialetto bolognese, di cui quasi nessuno parla è la "flemma" (la flèma), cioè quella caratteristica parlata, ormai quasi sparita, che avevano i vecchi bolognesi di città e che trovava riscontro anche e soprattutto nella parlata del Dottor Balanzone, maschera rappresentativa della città. Ho conosciuto nel corso della mia vita alcune persone che ancora parlavano in questo modo: un'amica di mia nonna (quella che ancora diceva "mé andó a chèsa", l'imbianchino Libero Masi, del quale ho scritto nei mie ricordi d’infanzia, ed anche il Commendator Edmondo Galletti, coetaneo di mia nonna Ada, il quale morì quasi centenario negli Stati Uniti, ma che fu prima nostro collega nell'industria dei giocattoli. Costoro avevano nella parlata tale caratteristica "flemma" la quale consisteva nel parlare molto lentamente, nel pronunciare le vocali molto aperte e nel quasi sillabare ogni parola, con un risultato simpatico e sereno, oltre che tipico dei veri petroniani di un tempo.

Dice Balanzone: "Ta-na-nàn Min-ghen-na, gnac-chere Ma-dóna flep-pa", una esclamazione senza senso che pronunciava appunto in questo modo, quasi staccato, con la sua beata flemma. Era un modo di parlare, ma forse indicava anche un prendere la vita con calma, bonarietà e filosofia. Un modo di parlare di cui prendiamo atto, ma che sarebbe fuori luogo voler riprodurre oggi, dove tutto è improntato a velocità, fretta, quasi un’ansia di consumare, per poi produrre, per consumare ancora. Un "dinosauro", qualcosa di estinto, come "dinosauri" sono moltissimi termini dei nostri nonni che possiamo trovare nei testi, in qualche antica commedia, ma che oggi suonerebbero come una fastidiosa ostentazione. Tipico esempio è quell'articolo di certa Liliana Nobili Sangiorgi apparso sul foglietto "Al pànt d'la Biànnda" di cui ho già parlato in altra sede. Cito a caso:

Pulismàn (vigile urbano) che moltissimi chiamano ormai véggil, brutto, se vogliamo, ma apparentemente inevitabile.
Sburdlèr (scherzare) che ormai tutti dicono "scarzèr".
Ruglàtt (gruppetto) che ha fatto posto a "grupàtt".
Sgugiól (gioco-scherzo) oggi "zuglén" o "schérz".
Tananài (baccano) oggi "casén" o "gatèra".
Siàn (fulmine) oggi "fólmin".
Busànch (geloni) oggi "zlón".
Cuérta zibè (coperta imbottita) oggi "cuérta imbuté".
Murèl (rosso scuro) oggi "ràss scùr".
Zighèla (toscanino) oggi "tuscanén".
Sbiàvda (pallida) oggi "smórta".
Béssa galèna (tartaruga) oggi "tartarùga".
Curén-na (supposta) oggi "supósta".
Sc’fón (calzini) oggi "calztén".

… e potrei continuare con centinaia, migliaia di esempi! Sono tutte parole o espressioni che gli appassionati debbono conoscere, ma che non si usano più o si usano molto raramente. Parole che appartengono al passato, che possiamo adoperare quasi come "licenze poetiche" se scriviamo "zirudelle", ma volerle usare, come nel caso citato, in un articolo di un giornale o, peggio, nei nostri discorsi di oggi, rappresentano un'inutile forzatura. "D'in su i veroni del paterno ostello" scriveva Leopardi magnificamente, ma credo che già allora usare "veroni" per "terrazze o balconi" e "ostello" per "casa o ospizio", fosse una forzatura, dunque perché voler usare parole antiche (o poetiche, come in questo caso), quando altre hanno ormai preso il loro posto? Le lingue e i dialetti (lo sanno anche i bambini) sono in continua evoluzione e noi possiamo sapere e studiare le parole antiche, ma dobbiamo usare quelle attuali, altrimenti faremmo una grande confusione tra passato e presente e non riusciremmo a dare un'esatta collocazione alle diverse cose.
La maggior parte degli attuali scriventi in dialetto, pur guardandosi bene dall'usare parole obsolescenti quando scrivono in lingua, fanno sfoggio di parole antiche, quasi volendole gabellare come attuali, quasi a voler insinuare: "Se non parli così, non parli vero bolognese"! Ciò non è vero e lo dimostra lo stesso Menarini che elenca tutte queste parole come antiche ma non le spaccia per parole ancora in uso. Io stesso, nel mio piccolo, raccolsi in "Voci caratteristiche bolognesi" circa 1.500 vocaboli, dei quali molti ormai in disuso, ma il mio scopo non era quello di "mostrare i muscoli" bensì quello di dimostrare (e neanche troppo segretamente) che, in aperta polemica coi toscani, il bolognese manteneva una più stretta relazione col latino: infatti, almeno per quel 20% di origini etimologiche che sono riuscito a trovare, dimostrai che tutto ciò che veniva definito "ostrogoto" dagli altri italiani, era in realtà latino! Lo studio del passato è una cosa, la pratica del presente è tutt'altra e sono due cose che occorre tenere separate, se si vuole essere seri. I dinosauri sono ormai estinti: se ne può parlare, li possiamo studiare, ma non dobbiamo dire che esistono ancora perché non è vero!
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Paolo Canè