martedì 9 ottobre 2007

GRAFIA E FONETICA

E' la "patata bollente" del bolognese e forse di tutti quei dialetti o lingue che finora non hanno avuto nessuno che ne abbia sancito le regole. Hanno un bel dire molti bolognesi:" A me piace il dialetto, ma faccio fatica a leggerlo!" Sfido io: chi ci ha insegnato a leggerlo e scriverlo? Se non ci fosse stato nessuno che, in base a regole prestabilite, ci avesse insegnato a leggere e scrivere l'italiano, oggi saremmo nelle stesse condizioni anche con la lingua! Noi, io stesso ed anche bolognesi che hanno studiato, quando parliamo dialetto siamo nella condizione di…analfabeti: gente che ha imparato un idioma ad orecchio, ma che non sa né leggere, né scrivere! Menarini riporta spesso due versi di un certo dottor Annibale Bartoluzzi, autore del poemetto l'Asnada, il quale ha scritto oltre due secoli fa (1779):

Ogn' Bulgneis fá a só mod l'urtugrafì
N'avend ensuna lezz da tgniri drj

E questa "legge" manca ancora e mancherà sempre, poiché allo stesso Menarini che sarebbe stato in grado, eccome, di farla, nessuno ha mai dato l'incarico e finora, purtroppo, egli non ha avuto successori degni di lui: dopo Menarini gli scriventi in dialetto avrebbero dovuto imparare la lezione, ma non è stato così. O meglio, alcuni "dicono" di seguire la sua grafia, ma poi non lo fanno o non sempre lo fanno. Ho già avuto modo di criticare il Dizionario Santarini, redatto appena 10 anni fa, che ancora scrive il dialetto come se…Menarini non fosse mai nato! Scrissi a suo tempo al "Resto del Carlino", facendo notare che il titolo della rubrica affidata a Dino Sarti, (purtroppo scomparso recentemente) e scritto orribilmente così:

Bulàgna tra un sêcol e cl'éter
conteneva almeno 5 errori, poiché secondo me (ma soprattutto secondo il Menarini) avrebbe dovuto essere scritto circa così:
Bulàggna stra un sécol e ch'l'èter

monito che tuttavia non ebbe risposta dal parte del giornale (a dimostrazione che chi è ignorante, di regola, tende a volerlo rimanere!) e le cose sono rimaste invariate.
E ancora, sul Dizionario Vallardi, gli Autori prima si sono dichiarati seguaci menariniani e poi sono andati riesumare un'antica grafia (usata dal Mainoldi 50 anni fa) che sarà anche precisa (sempre che si sappia "quale" sia la pronuncia giusta delle parole!), ma che, inflazionata di una miriade di segni diacritici, è assolutamente ostica per chi (come tutti!) voglia leggere agevolmente a prima vista! Così la penso io, poiché credo che 12 vocali (5 per la sola "a": à,â,ä,å ed a !) siano veramente troppe. Fare differenza fra bän (bene) e bån (buono) sarà giusto, ma anche falso, poiché molti pronunciano "a" in entrambi i casi, tuttavia, se proprio si vuole fare una differenza per "buono", basta usare la "o": Menarini aveva già detto dell'inutilità di conservare segni diacritici ormai desueti anche in lingua. I nuovi Autori, paventando un eccessivo "appiattimento sull'italiano" e citando una frase di Leopardi (recanatese, mi pare, e non bolognese!) secondo cui "il dialetto bolognese avrebbe bisogno di un alfabeto di 40 o 50 o più segni" (sic), non solo hanno ripristinato un accento, ma ne hanno introdotti altri due che italiani non sono mai stati. Infatti io penso che:

1) L'accento circonflesso che esiste in francese in parole di origine latina nelle quali è caduta la "s" (être, êté, âne, ecc.) dovrebbe restare al francese ed indicare quella specifica caratteristica.
2) La dieresi che esiste nella lingua tedesca, serve per indicare (se si trova, ad esempio, sulla "a") un suono tra "a" ed "e" ("e" molto aperta) e perciò, nel nostro dialetto, basta "è" contrapposto a "é" ed "e"!
3) La "pallina" esiste nella lingua svedese e fa pronunciare la "a" come una "o" e perciò bastano le nostre varianti "ò", "ó" ed "o"!

Dunque, perché andarci a complicare la vita? Quanto a vocali bastano le nostre 5, con aggiunte le "o" e le "e" con gli accenti acuto (suono chiuso) e grave (suono aperto), mentre per il resto vale ciò che disse Menarini a proposito dell'UNICO suono bolognese diverso dall'italiano che riguarda l'incontro di una "n" alveolare e di una velare che il Maestro risolse con un semplice puntino sulla "n", ciò che però il mio "computer" non prevede e pertanto io rendo con "n-n"! Inutile ed anche abbastanza ostico da leggere ogni altro "provvedimento" come scrivere "cunpagnì" anziché "cumpagnì" per "compagnia": non solo vorrei sapere chi pronuncia la "n" anziché la "m", ma vorrei anche sapere al lato pratico che differenza c'è tra i due suoni!
Non credo che occorra temere di "appiattirsi sull'italiano" e nemmeno credo che occorra "inventare" una grafia per il bolognese o peggio pensare, come tanti fanno (o almeno facevano), che si debba scrivere "Bulògna" per poi dover leggere "Bulàggna"!). L'italiano (che è la NOSTRA lingua, della quale il bolognese è stretto parente), è nato dopo, ma è stato codificato prima e perciò non vedo niente di scorretto o di sbagliato nell'adottare le sue regole! Anche in italiano c'è chi pronuncia in un modo o nell'altro (ho già fatto l'esempio di "zio" e "zucchero", ma ce ne sono altri!) e pure si sono eliminati tanti segni inutili (accenti circonflessi, "J" lunghe, dieresi, ecc.) e tanti altri che invece sarebbero stati utili, come gli accenti, poiché evidentemente si suppone che i parlanti sappiano la differenza fonetica tra "bòtte e bótte", come anche la grafia di "acqua e soqquadro" senza che si facciano errori di pronuncia e di scrittura. Credo inoltre che non esista un solo dialetto per tutta la provincia: se a Medicina vogliono scrivere e pronunciare il loro dialetto (e già lo fanno) scriveranno e pronunceranno nel modo loro e non nel nostro, poiché il loro è medicinese, non bolognese! Superata è anche la differenza tra i suoni cittadini tra quartieri: ormai la città è invasa da "forestieri" di tutti i generi e queste differenze da molti anni non ci sono più.
Dunque lo ripeto: non complichiamoci la vita, seguiamo l'insegnamento di Menarini e, se proprio vogliamo fare qualcosa, andiamo avanti e non indietro! Non dico che dopo Menarini siano finiti gli studi sul bolognese (per quanto…), ma se il dialetto sopravvivrà, se cambierà, si provvederà a cambiare a suo tempo. Oggi credo che la pronuncia (ed anche la grafia) sia quella del Menarini e nessuno mi venga a raccontare che 100 anni fa il dialetto era tanto diverso da quello di oggi! Lo scrivevano "male" in modo che a leggerlo oggi ci può sembrare diverso, ma io credo che fosse uguale: ho già detto di mia nonna, nata nel 1882, la quale pronunciava esattamente come mio padre (1913) e come me (1939). C'erano allora, tra bolognesi veraci, differenze tipo "andó" per "andé" e "chèsa" per "cà" (ciò che da ragazzo feci in tempo ad udire con le mie orecchie), c'erano termini ormai in disuso come migh, tigh e mille altri, ma erano solo vocaboli (più soggetti a cambiare) e NON differenze fonetiche! La frase del dottor Bartoluzzi, riportata da Menarini e scritta 220 anni fa, oggi, secondo l'attuale grafia, che io ritengo più giusta, si scriverebbe:

Ogne bulgnàis al fà a só mód l'urtugrafì
N'avànd inciónna làzz da tgnìr drì

ma sono pronto a scommettere la pensione che la pronuncia era pressoché identica a quella di oggi! Oltre al fatto che così è molto più facile da leggere!
Confrontiamo l'italiano d’oggi e quello di un secolo fa: a parte vocaboli scomparsi e neologismi, la grafia ci fa supporre che la pronuncia fosse la stessa.Se non è cambiato l'italiano, perché dunque avrebbe dovuto cambiare il dialetto? Se dovessi decidere io (ma se dovessi decidere io, cambierebbero molte cose!), istituirei un'Accademia del Dialetto Bolognese, anche se non necessaria, non sentita e di scarsa utilità.
Lo farei come estremo omaggio ad un dialetto che è stato usato dai miei antenati per quasi 2000 anni e che forse tra 100 anni nessuno parlerà più.
Lo farei come monumento funebre per quella lingua, tutta nostra, che ci ricorda l'infanzia felice, che ci ricorda i discorsi dei nostri cari, che ha accompagnato molti di noi fin qui, con la sua simpatia, il suo sarcasmo, la sua immediatezza, il suo senso di complicità, la sua impareggiabile ed intelligente ironia.Lo farei anche per "dare un taglio" alle fantasie dei "nuovi linguisti", per mettere la parola "fine" all'anarchica definizione del prof. Bartoluzzi, perché la gente la smettesse di scrivere e di dare pareri (come faccio anch'io!), per poter dire "Adesso basta: il bolognese, oggi, si scrive e si pronuncia così!", in modo che coloro i quali ne hanno ancora voglia, potessero tramandare proverbi, parole e quant'altro, e così, in futuro, i posteri saprebbero la realtà delle cose e non dovrebbero faticare come noi che non sappiamo ancora esattamente come pronunciassero i latini, gli egizi e come scrivessero gli etruschi! Credo che Alberto Menarini sarebbe d'accordo con me.
Ho già avuto modo di osservare che da sempre, fino all'era di Menarini, vigeva una convenzione, secondo cui si sarebbe dovuto scrivere in un modo e…leggere in un altro! Gli esempi sono migliaia: si scriveva "donca, Bulogna, louna, seinza, zigar, ecc." per dovere poi leggere: "dànca, Bulàggna, lón-na, sànza, zighèr, ecc." il tutto condito con accenti gravi o acuti messi a caso, con accenti circonflessi, con j lunghe, con consonanti doppie o suoni "-sc", inesistenti nel nostro dialetto e varie follie.
Menarini pose fine a questa anarchia e mise a punto un sistema semplice, ma reale e di facile lettura: peccato che, a pochi anni dalla sua scomparsa, molti lo abbiano già dimenticato (ma forse non lo hanno mai conosciuto!).
Nella lingua italiana esistono regole precise sullo scritto e chi non le osserva è sicuramente ed inequivocabilmente un asino, mentre esistono molte eccezioni sul parlato, perché ognuno è influenzato dal dialetto della sua terra: come ho detto prima, un meridionale anziché "psicologia" oppure "interpretare" dirà "pisicologia" e "interpetrare", un sardo anziché "interpretato" dirà "interpretatto", mentre per "atmosfera" il milanese dirà "anmosfera", per "ottantotto" il veneto dirà "otantoto", per "ragazzo" il bolognese dirà qualcosa di simile a "ragasso", per "comprare" il toscano dirà "homprare" e tantissimi "errori" di pronuncia i quali ci fanno capire la provenienza di molti parlanti, non appena aprono bocca! Questo succede per l'italiano e per tutte le altre lingue, che pure hanno delle regole ben precise, figuriamoci cosa succede nei dialetti dove non ci sono nemmeno quelle!
Approfittando del fatto che non c'è nulla di prestabilito, né su come si debba scrivere, né su come si debba pronunciare correttamente, molti “imbroglioncelli” si spacciano per "intenditori" e cercano di dare validità ai loro strafalcioni: ci riescono con i più sprovveduti, ma non con chi bolognese lo è per davvero: per nascita, per tradizione, per pratica dialettale quotidiana e per studio! Ho assistito ad una commedia in dialetto, nella quale il "regista" pretendeva che gli "attori" dicessero "sgnèr" anziché "sgnàur" (signor), come peraltro mia nonna ha sempre detto. Ho assistito ad un penoso notiziario TV in dialetto, dove il lettore salutava gli ascoltatori con un antiquato "tersuà" (=torsùo=servitor suo), un saluto forse usato nel XVIII secolo, ma ormai scomparso!
Parole che suonano inutilmente ricercate e forzate,una mania di voler apparire "pratici del dialetto", quando invece non lo si è affatto. Basti pensare alla pronuncia incerta ed inesatta sia degli attori di quella commedia, sia del lettore di quel notiziario TV! Dubbi sulla fonetica, in mancanza d'antiche registrazioni, nascono leggendo lavori di 100-150 anni fa che farebbero presupporre mutazioni sensibili della pronuncia, quando al contrario e, più verosimilmente, si tratta di grafie errate, antiquate e superate che ci portano a leggere in un modo, mentre invece il dialetto parlato è praticamente lo stesso, oggi come allora. Certo, qualche vocabolo è andato in disuso e qualche neologismo è entrato in vigore, ma i "suoni" del dialetto sono certamente gli stessi! Prendiamo, ad esempio, quelle (per me bellissime) poesie di Testoni che, altrove, mi sono divertito a presentare in triplice versione: come sono state scritte, come si scriverebbero oggi e come suonano tradotte in italiano e vediamo di fare qualche considerazione:

a) noto che "Foj ch’croden" e l'altra intitolata "All'ustarì", entrambe da me attinte alla stessa fonte, sono scritte in modo diverso da "La mort dla mama": le prime piene di "j" e di consonanti doppie, l'altra piena di accenti circonflessi e nessuna "j", segno evidente che qualcuno ha voluto metterci del suo nel trascriverle, così ora non sappiamo quale sia la grafia originale che usò Testoni! In ogni caso tutte e tre sono scritte con grafie che si scostano sensibilmente non solo dalla pronuncia di oggi, ma presumo anche dalla pronuncia di allora.
b) la trascrizione da me fatta, il più aderente possibile alle regole del Menarini, è molto più facile da leggere (cosa che mi hanno confermato molti lettori) e molto più vicina a quella che dovrebbe essere la pronuncia "vera".
c) la traduzione in italiano è un gioco che mi sono permesso di fare il quale è utile, ma bugiardo: utile per far capire il senso ai forestieri e a quei bolognesi che non sanno più il dialetto; bugiardo, perché nessuna lingua sarà mai perfettamente traducibile in un'altra, poiché ogni lingua ha un'anima intraducibile e l'anima bolognese resta tra i versi scritti in dialetto e non va ad animare per nulla quelli scritti in italiano.

Ma gli esempi non finiscono qui. Un tempo Bologna era divisa in quartieri in perenne lotta tra di loro ed abitati da gente che sentiva l'orgoglio di far parte di quella comunità, ciò che impediva mescolanze d'ogni genere, anche dal punto di vista linguistico, tanto è vero che esistevano vocaboli e modi di pronunciarli che erano tipici del Borgo o del Falcone o di Gatta o delle Casse o di altri quartieri. I Quartieri d'oggi sono cosa ben diversa e i vecchi non esistono più, se non nei nomi delle strade o nel ricordo dei più anziani, ma certamente non esistono più differenze di vocaboli o di pronuncia tra un quartiere e l'altro, tanta è stata l'immigrazione di non bolognesi e la guerra al dialetto per tutto il novecento! O meglio, una differenza resta ed è il dialetto di città (quello parlato da bolognesi veraci, come mio padre, come me e NON come i miei figli e i miei nipoti!) e quello parlato anche solo a Castenaso, a Castel San Pietro, dai discendenti dei nativi e non certo dai bolognesi che vi si sono trasferiti, per non parlare poi di quello parlato a Medicina (che è un dialetto a parte) o ad Imola (che è romagnolo)!
Ne ho avuto la prova di recente, quando un amico di Castenaso mi ha invitato ad aiutarlo a registrare la versione bolognese di un noto pezzo americano e mi ha chiesto di correggerne il testo: ebbene, mi sono reso conto che ad ascoltarlo poteva sembrare lo stesso dialetto, ma a vederlo scritto sono emerse notevoli differenze, una per tutte quel "masadùr" (macero) che noi bolognesi chiamiamo "masnadùr"!
Pertanto, anche se non esistono più differenze "cittadine", persiste la differenza tra il dialetto di Bologna e quello dei Paesi della sua provincia, perciò sbaglia chi intende per "dialetto bolognese" la parlata di tutta la provincia, come è sbagliato che un non- bolognese scriva un libro o faccia una conferenza su un dialetto che non è il suo oppure che voglia spacciare per bolognesi certi vocaboli che sono prettamente campagnoli! Ognuno dovrebbe parlare il proprio dialetto e lasciare il bolognese ai bolognesi. In materia di lingue e dialetti la gente (per ignoranza) incorre spesso in grossolani errori del tipo:

1) il dialetto è una corruzione della lingua (sbagliato: il dialetto è nato prima e la lingua è una convenzione che è venuta dopo).
2) i dialetti settentrionali risentono dell'influenza francese o tedesca (pure sbagliato: essi sono all'85-90% puro latino con inflessioni locali che hanno a che fare con le invasioni barbariche, ma non con altre lingue).
3) i dialetti sono volgari e l'italiano è "fine" (sbagliato: è vero che i dialetti sono lingue popolari e non certo raffinate, ma una parolaccia in dialetto è sempre molto meno volgare della sua corrispondente in lingua).
4) il toscano è la vera lingua italiana (niente di più falso: il toscano è un dialetto come un altro, il quale anzi contiene forse meno latino di tutti gli altri. E poi la lingua italiana, prima di venire perfezionata in Toscana, ha avuto origini siciliane e poi elaborazioni bolognesi!).
5) i dialetti italiani sono circa un centinaio, cioè circa uno ogni provincia (grande errore: sono forse 700, forse 1000, poiché all'interno di ogni provincia convivono molti dialetti, forse simili tra loro, ma diversi).

Se nessuno avesse stabilito come si scrive e come si legge l'italiano (ciò che ha avuto e avrà diversi aggiustamenti nel tempo, ma che da secoli è regola inequivocabile), ancora oggi esisterebbero sostanziali differenze tra le varie città, noi italiani finiremmo per non capirci più tra di noi e… andrebbe a farsi benedire lo scopo per il quale l'italiano è nato! Questo stesso malinteso esiste nel nostro e in tutti i dialetti, proprio perché molti hanno provato a scriverli, ma nessuno ha mai potuto o voluto stabilire come si debbano leggere e come si debbano scrivere correttamente. Farlo oggi sarebbe forse inutile ed è certamente troppo tardi e perciò siamo costretti a tenerci questa "patata bollente" e a passarcela tra di noi!
Il problema resta aperto, ognuno scriverà e pronuncerà come ha imparato da mamma, ma una cosa dovrebbe essere importante: dovremmo avere rispetto del dialetto, se non altro perché è stata la lingua dei nostri antenati, perché è il terreno in cui affondano le nostre radici e perciò dovremmo evitare di stravolgerlo, di aggredirlo con inesattezze e neologismi, dovremmo chiamarlo con il suo nome e perciò chiamare "bolognese" solo quello che si parla a Bologna!

Paolo Canè

Proverbio n. 131

Èser una saracàn-na (èser salè).
Essere zitella.

Proverbio n. 130

Èser una languamérda.
Si dice alle persone maldicenti.

Proverbio n. 129

Èser un sbuvazàn.
Uomo grasso e smidollato.

Proverbio n. 128

Èser un magnasànt e chegadièvel.
Essere bacchettone e bigotto.

Proverbio n. 127

Èser un scagazàn (un squizàn).
Non aver coraggio.

Proverbio n. 126

Èser culàur 'd scuràzza (culàur d'óss avért).
Essere pallido.