lunedì 22 ottobre 2007

INT LA BÀSA (n. 96)

Un òmen in biziclàtta al vàdd int un càmp drì à la strè una bèla cuntadnóta col cùl pr'ària ch'la cóii el barbabiétol. Sànza pensèri un minùd, al smànta da la biziclàtta, ai tìra só la stanèla e… "zac!".
La cuntadnóta l'as lìva só ed scàt e l'ai dìs:

"Mó ló, c'sa fèl?"
"Chi mé? A fàgh al manvèl da muradàur!"

Proverbio n. 144

I finénn i marón a Làzer (ch'ai n'avèva 366 panìr).
Tutto finisce, prima o poi.

Proverbio n. 143

Gàt ai póndgh e càn ai strónz.
Ad ognuno il suo.

Proverbio n. 142

Furtón-na sèlt'm adós che inzàggn at l'inchègh.
Val più la fortuna che l'intelligenza.

ANCORA A PROPOSITO DI GRAFIA!

Nel 1385 Francesco Sacchetti scriveva in una delle sue "Trecentonovelle":
"Come questo giovane acquistò puramente, e con grande simplicità, le lire cinquanta, così con grande astuzia il piacevol uomo Basso della Penna in questa novella vinse a un nuovo giuoco più di lire cinquanta di bolognini".
Quasi 100 anni dopo (1478) leggiamo nel "Diario" del Nadi, in occasione del matrimonio tra Lucrezia d'Este ed Annibale Bentivoglio, che si fecero:
"chanti et soni in susio li chantoni de le vie" e il corteo era accompagnato "da cento trombita et cinquanta pifari et trumbuni et chorni et flauti et tamburini et zamamelli".
A noi profani salta agli occhi la notevole differenza di grafia e di intelligibilità (a secoli di distanza) tra le due prose, sopra tutto se pensiamo che il Sacchetti scriveva un secolo prima del Nadi!
Potremmo pensare che a Firenze si scrivesse meglio che a Bologna.
Potremmo pensare che in un secolo la lingua italiana sia… regredita.
Potremmo pensare che il Sacchetti fosse un intellettuale e il Nadi no, mentre sappiamo che erano entrambi borghesi con una certa cultura, anche se non certo paragonabili a Dante o Petrarca!
Perché dunque oggi queste due grafie ci sembrano così diverse, tanto che quella del Sacchetti non sembra d'un secolo prima, ma di due secoli dopo?
I motivi potrebbero essere diversi:

- una certa differenza di conoscenza della lingua tra i due scrittori
- una diversa influenza dei dialetti locali sulla lingua italiana scritta
- un voler scrivere (da parte del primo) nel nuovo volgare italiano, mentre il secondo sembra abbia voluto ricalcare il basso latino medievale

Qualche studioso ce lo potrebbe spiegare, magari anche facilmente, ma resta il fatto che noi profani rimaniamo stupiti da tanta differenza. E ci riesce difficile pensare che a quei tempi il "volgare illustre" parlato a Firenze fosse tanto diverso da quello di Bologna. A maggior ragione ritengo che nei dialetti, proprio in quanto solo parlati, la grafia fosse ancora più approssimativa. Certo che il dialetto parlato a Bologna era molto più diverso dal volgare italiano di quanto non lo fosse quello parlato a Firenze (è così ancora oggi!), ma restano dubbi. Non mi stancherò mai di dire che le differenti grafie ci traggono molto probabilmente in inganno nel nostro tentativo di ricostruire la fonetica, della quale, per ovvi motivi, non abbiamo documenti.
Dato che, come è noto, "scripta manent", mentre "verba volant" (soprattutto perché non erano ancora state inventate apparecchiature adatte a registrarle!), siamo indotti a pensare che nei tempi passati la gente parlasse come scriveva, ma i due esempi qui riportati ci fanno supporre che non fosse affatto così.
Il popolo era ignorante ed analfabeta e perciò parlava unicamente dialetto, un dialetto che variava non solo da città a città, ma da paese a paese e da rione a rione e questo è un fatto. Gli intellettuali tra il tre e quattrocento stavano invece abbandonando il basso latino in favore della nuova lingua di Dante, ma è lecito pensare non tutti fossero dello stesso livello culturale, che i loro dialetti influenzassero più o meno la lingua e che perciò ci abbiano tramandato opere e documenti con notevoli differenze di grafia, mentre nella lingua parlata tali differenze potevano essere molto più lievi.
Essi avevano tuttavia, se non grammatiche e dizionari, quanto meno modelli a cui riferirsi, mentre chi tentava di scrivere in dialetto non aveva nemmeno quelli! Ognuno si arrangiava. Ognuno faceva quel che poteva e come poteva, secondo il grado d'istruzione, secondo che volesse o non volesse basarsi su quella grafia italiana che, magari, conosceva poco. Ognuno cercava di riprodurre alla "bene e meglio" i suoni del proprio dialetto, usando lettere, apostrofi ed accenti il più delle volte a sproposito, tralasciando vocali (soprattutto nei dialetti gallo italici), convinti che il proprio dialetto non avesse nulla a che vedere col volgare italiano scritto e dimenticando così che entrambi contenevano una solida base latina.
Noi siamo grati, per l'amor di Dio, a questi autori che si sono sforzati di lasciarci preziosi documenti, ma non dobbiamo lasciarci ingannare quando cerchiamo di capire quale fosse il dialetto parlato di quei tempi. Noi studiamo ciò che essi hanno scritto e non ci permettiamo di fare alcuna correzione, ma non dobbiamo pensare che il dialetto bolognese come lo vediamo scritto dal Mitelli nel '600, dalla Coronedi Berti nell'800 o dal Testoni a cavallo tra '800 e '900 fosse tanto diverso da quello parlato oggi (concetto che ripeto spesso, poiché vedo che è duro da capire!).
Qualcosa è certamente cambiato (tutto cambia!), ma non così tanto come queste letture ci possono indurre a pensare. L'ho già detto: mia nonna, nata nel 1882, parlava un dialetto che, in quanto a fonetica, era esattamente uguale a quello parlato da mio padre e da me.
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Paolo Canè