lunedì 28 aprile 2008

VOCABOLI IN VIA DI SPARIZIONE

Argomento questo che ho toccato diverse volte, sia per fissare sulla carta e nella memoria degli appassionati diversi vocaboli che stanno sparendo, sia per biasimare certi improvvisati "soloni" del dialetto, i quali vorrebbero riproporre termini ormai in disuso, spacciandoli come ancora in uso. Una pratica inutile e soprattutto sbagliata, poiché ciò che è morto non si può spacciare per vivo e il dialetto, come anche l'italiano e qualsiasi altra lingua, è in continua evoluzione e perciò non ci si deve ancorare al passato, pur non avendo troppa fretta di introdurre il nuovo. Tra questi falsi profeti, c'è anche chi ha preteso di proporre un dialetto che sia valido per tutta la provincia di Bologna: enorme stupidaggine, poiché, come ho più volte ricordato, esistono ancora differenze anche notevoli tra un paese e l'altro.
Perciò, se parliamo di "bolognese" dovremmo intendere il dialetto che si parla oggi (e non ieri) a Bologna (e non a Castenaso)!
Detto, anzi, ripetuto questo, occorre ricordare che tra i termini obsoleti, ancorché tipici e simpatici, ve ne sono di…diverse gradazioni! Alcuni sono del tutto dimenticati e si possono trovare soltanto nelle opere dell'Ottocento o anche precedenti, altri sono ancora in uso presso una minima percentuale di parlanti e altri ancora vengono ancora usati da una percentuale più alta, ma non da tutti, soprattutto non dai più giovani i quali, inevitabilmente, sono più influenzati dalla lingua.
Tra i primi, ricordo gli "auguràz" che non sono gli "augùri" (forma uguale all'italiano) che si fanno per Natale o per il compleanno, ma sono delle…maledizioni! "Fèr di auguràz" significava infatti maledire qualcuno.
Tra i vocaboli ancora usati da pochi, abbiamo "bartén" (dall'arabo "baruti" = colore della polvere da sparo, udito anche nella forma "bertén") che significa "grigio" e che è sempre più spesso sostituito da "grìs", come anche il verbo "sladinèr", che significa "rodare" (detto, ad esempio, di un motore), sempre più sostituito da "rudèr".
Tra i vocaboli ancora molto vivi tra noi "vecchi", ma quasi spariti tra i giovani, c'è il più volte citato "pulismàn", del quale ho detto nel capitolo precedente.
Da questi pochi esempi è facile capire che i nuovi termini sono tutti formati sulla lingua italiana e la domanda è: "E' giusto continuare ad usare i vecchi termini o si devono adottare quelli nuovi?". La risposta è molto semplice: ogni generazione deve usare i propri termini, non quelli dei genitori e nemmeno quelli dei figli! Quelli dei genitori li possiamo (forse li dobbiamo) conoscere, magari anche amare, ma non ostentarli come se fossero rare scimmiette di uno zoo. Quelli dei figli probabilmente ci piacciono di meno, ma spesso siamo costretti ad usarli, se mai vogliamo essere capiti dagli altri! Già, perché c'è anche questo pericolo: se noi ci ostiniamo a dire "ruglàtt" anziché "grupàtt", "ziricuchén" anziché "cumplimént" e "sgugiól" anziché "zughlén" non solo rischiamo di non farci capire dalla gran parte dei nostri concittadini, ma, agli orecchi dei più disincantati, facciamo la figura dei "giggioni" che vogliono dare a intendere d'essere ciò che non sono. Chi vorrebbe ancora usare la "draisina", quando da oltre un secolo può pedalare con la "bicicletta"?
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Paolo Canè

1 commento:

Anonimo ha detto...

Mo sóccia che sumarnè! Mo ló n èl gnint ed méi da fèr che strafugnèr al bulgnais?