martedì 23 dicembre 2008

LA FÒIA TONDA di Adriano Simoncini

In questi giorni nei quali tutti pubblicano (di recente mi ci sono messo anch’io!), sono entrato in possesso di questo libro sulla montagna: usi, costumi, dialetto, proverbi, personaggi,ecc. Un libro ben fatto, benché limitato alla montagna delle valli di Savena, Setta e Sambro (che è anche il titolo di un periodico), a differenza dei due più completi volumi pubblicati, sempre di recente, da Tiziano Costa che trattano di tutta la nostra montagna. Si direbbe un’inflazione di pubblicazioni sui nostri dialetti, sulla nostra storia e, se ci fossero più lettori che scrittori, sarebbero anche interessanti per chi si prendesse la briga di leggerli!
Ma tant’è. La "fòia tonda" sarebbe quella del castagno d’altura, sinonimo di povertà e, a questo proposito, nutro qualche dubbio sull’esattezza della grafia, che è l’eterno problema di tutti i dialetti. Non conosco il dialetto montanaro (e suppongo che non ce ne sia uno solo!), ma, vedendo alcune incongruenze grafiche, credo che Simoncini abbia curato più il contenuto che la grafia. Il contenuto è una lunga serie di proverbi, molti dei quali fanno parte anche del nostro dialetto, alcune poesie di Terziglio Santi, vari modi di dire, fatti, personaggi, situazioni ed abitudini, soprattutto di un tempo.
E, tra questo materiale, ho trovato alcune curiosità che voglio ricordare.
Da sempre ho sentito dire l’é mò lé mò lé, esclamazione usata come dire “è proprio lì il busillis o il problema”, ma nel libro viene spiegato quello che potrebbe essere il vero significato: l’é mò lé al mulén (è lì il mulino), poiché pare che un tempo si dovessero fare lunghe code d’attesa ai mulini e quello era un problema. Mulini che hanno avuto importanza fondamentale nell’economia antica, tanto da dare vita a diversi proverbi anche in italiano: “Chi va al mulino s’infarina”, “Acqua passata non macina più”, “Chi prima arriva macina”, “Portare acqua al proprio mulino” e così via.
E, a proposito di mulini, ho trovato anche la spiegazione del detto “L’é pió pàis che la mèsna ed sàtta” detto alle persone pesanti da sopportare: pare che delle due macine dei mulini, quella di sotto fosse la più voluminosa e perciò la più pesante! Tuttavia a Bologna si dice anche “L’é lóngh cómme la mèsna ed sàtta” a chi è un tiratardi e lento nel fare le cose, ma credo che sia una variazione sul tema e che non c’entri nulla con i mulini, a meno che…la macina inferiore non girasse più lentamente dell’altra ed io, non essendo mugnaio, non lo posso sapere!
Altri detti che si ricollegano alla mia infanzia di “cittadino”, ma sempre molto vicino alla campagna, sono il richiamo alle galline per fare rientrare la sera nel pollaio (a lèt, a lèt, a lèt) e l’imitazione del verso della civetta (tutumìù, tutumìu, tutumìù), cioè “tutto mio” riferito a che è ingordo e vorrebbe tutto per sé, specialmente il denaro.
Il libro contiene anche la spiegazione di un altro modo di dire: “l’à magnè el tàtt a só mèder” che, a quanto pare, si riferiva a quei bambini che pretendevano il latte materno anche oltre l’età consentita. Qui a Bologna si dice “an ò mégga magnè el tàtt ed mi mèder” quando ci si vuole difendere da una punizione esagerata, come per dire “va bene, ho sbagliato, ma non sono mica una carogna”. Piccole differenze di significato, ma è anche naturale che ci siano, tuttavia i detti sono tutti abbastanza simili.

Interessante è anche il termine “balzano” nel senso di “bizzarro” (un’idea balzana), il quale trarrebbe origine proprio dalle balze dei cavalli, seguendo un misterioso detto che indicherebbe la bontà di questi animali a seconda del numero delle loro balze.
Curiosi sono anche alcuni modi di dire, come “an sà gnànch quànt marón l’à una pìgra” (non sa nemmeno quanti testicoli abbia una pecora), che è indice della massima ignoranza. Oppure “ai éra d’la miséria dapartótt, fóra che a lèt” per dire in modo birichino che mancava tutto, tranne che le prestazioni sessuali!
Poi ho trovato un proverbio un po’ volgarotto, se vogliamo, ma molto simpatico e, se ben ricordo, non compreso negli oltre 1400 che Alberto Menarini elencò nei suoi famosi “Proverbi bolognesi (1971)”. Esso recita così: “ch’i sànt ch’i màgnen i fàn di miràquel ch’i pózzen” (i santi che mangiano fanno miracoli maleodoranti). L’antica saggezza contadina diffida di chi fa del bene con sottinteso un preciso tornaconto, ma anche di chi promette miracoli e poi è capace di fare soltanto ciò che può!
Queste sono le cose che mi hanno colpito particolarmente, ma in questo libro, in tutti i libri c’è sempre molto di più. Quest’ultima considerazione, insieme a quella precedente sul grande numero di scrittori in confronto al numero ristretto dei lettori, mi fanno venire in mente alcuni aforismi:

“Non c’è libro tanto cattivo che in qualche sua parte non possa giovare” (Plinio il Vecchio)

“Una volta avevamo un pubblico: adesso il pubblico si è messo a scrivere” (J.Rénard)

“I libri che si vendono di più, sono quelli che si leggono di meno” (f.lli Goncourt)

“Hai letto quel libro? Non l’ho letto e non mi piace!” (Anonimo)
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E credo che così possa bastare, tuttavia mi piace ricordare in questa sede un aforisma di A. Arbasino che dice: “Le tre età di un o scrittore: a 30 anni è la giovane promessa, a 50 è il solito stronzo e a 65 è il grande Maestro”!
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Paolo Canè

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