lunedì 18 febbraio 2008

ALLA RICERCA DI GIUSEPPE MARIA MITELLI

(Nota: questo articolo tratta in particolare di alcune illustrazioni che,per vari motivi, non possono essere riprodotte in questa sede, tuttavia interessano più le iscrizioni)

"…da un'incisione di Giuseppe Maria Mitelli…", "una stampa del Mitelli", "un disegno di G.M. Mitelli". Quante volte abbiamo trovato nei vari libri su Bologna, nei calendari dialettali e negli almanacchi queste annotazioni a fianco di gustose riproduzioni al tratto di tre secoli e mezzo fa! Credo che non ci sia bolognese che non abbia per casa almeno una di queste opere, in forma più o meno grande, più o meno fedele. Ho fatto una sistematica ricerca nella mia biblioteca e sono riuscito a mettere insieme una raccolta di oltre 100 riproduzioni ed anche un capitolo dedicato al Mitelli a cura di certo Giorgio Cencetti, apparso sulla "Strenna Storica Bolognese"(Tamari 1961), dal titolo "Pace, pace, non più guerra". E naturalmente ho raccolto il tutto in una carpetta dedicata all'incisore bolognese. Queste piccole opere d'arte sono divise, grosso modo, per genere: i mestieri, i proverbi, i giochi, i disegni satirici e politici (dei quali in particolare si occupa il Cencetti) e vari altri. Una nuova collezione, da aggiungere alle altre mille, che voglio corredare con questo mio commento.
Innanzitutto chi era Giuseppe Maria Mitelli? Se facessi questa domanda a tutti i bolognesi sono certo che pochissimi saprebbero darmi una risposta ed è strano che un incisore, le cui opere sono tanto diffuse ancora dopo secoli, sia praticamente misconosciuto. Il Comune gli ha dedicato una stradina fuori porta Galliera, nessuno ci racconta chi sia (a parte il capitolo suddetto) e tutte le mie enciclopedie lo ignorano. Esse riportano solo un Agostino Mitelli (Bologna 1609 - Madrid 1660) che, per luogo e anno di nascita, suppongo fosse suo padre.
La maggior fonte di notizie è questo capitolo del Cencetti, che conferma la mia supposizione: "Giuseppe Maria era figlio del celebre Agostino". Da altra parte ho trovato una breve annotazione: "Nato a Bologna nel 1634 ed ivi morto nel 1718, pittore, incisore, maestro nell'arte dell'acquaforte, ritrasse capolavori dei Carracci, Guercino ed altri, si sbizzarrì in soggetti fantasiosi allegorici che accompagnava con poesie" (da Torri e Case).
Lo stesso Cencetti, che gli dedica otto pagine ed alcune illustrazioni, lo definisce "Professore all'Accademia Clementina, ma gran cacciatore, sportivo e burlone… indotto alla illustrazione da avvenimenti politici del suo tempo" e, nonostante che più avanti, lo accrediti di varie capacità e virtù, il quadro che ne esce non è molto lusinghiero. Mi sono chiesto come mai un personaggio di questo rilievo non abbia la dovuta considerazione che invece hanno altri bolognesi meno importanti di lui.
E mi sono dato una risposta possibile: Cencetti, del quale non ho mai sentito parlare, è evidentemente un intellettuale, un accademico, uno dei tanti che si sono occupati, tra l'altro,del Mitelli e traggo questa convinzione dal suo linguaggio forbito, ma un poco pedante e nebuloso, tipico degli intellettuali i quali non sono capaci di parlare chiaro per far capire a noi ignoranti di che cosa stanno parlando! È dunque probabile che il nostro Giuseppe Maria non avesse molta istruzione e perciò non fa parte del "Gotha" dei pittori bolognesi (I Carracci, Reni, Crespi, Francia, Albani ecc.), motivi questi che sono sufficienti a scatenare lo snobismo dei laureati, secondo i quali un laureato asino è un dottore, mentre un geniaccio senza diplomi non è nessuno! Forse sono un po' severo con l'estensore del capitolo, ma ne ho veramente abbastanza di questi "soloni", di questi "aristocratici" della cultura che, apparentemente, tengono più in conto certi aspetti esteriori (titoli accademici, appartenenza politica, ecc.) che non la sostanza degli individui. E in questo caso egli si è abbandonato ad apostrofare il Mitelli con aggettivi del tipo "popolaresco, superficiale, cortigiano, semplice, buffonesco" e così via, per poi bonariamente riconoscergli una "certa arguzia", ciò che ribadisce il suo snobismo di critico spocchioso!
Io non ho strumenti per giudicare se il Mitelli sia stato un grande o meno: non credo sia da annoverare tra i nostri più grandi artisti, ma gli riconosco diverse doti e non credo che meriti una critica tanto faziosa. Non sono in grado di giudicare l'artista e non voglio nemmeno farlo. Voglio soltanto dire ciò che penso,visto che tutti lo fanno!
A me piace. Mi piace perché riesce a darmi un'idea della Bologna del '600, di come si scherzava, di come si scriveva e di come si viveva. Perché ha spesso accompagnato le sue caricature con versi in italiano e in dialetto e ciò accresce il mio interesse. Perché, forse ancora più del tedesco Wilhelm Busch (l'autore di Max und Moritz), egli è l'antesignano del fumetto inteso come sequenza d'immagini che parlano. Perché se la prendeva con i Turchi e ciò dimostra che in tre secoli quella gente è cambiata poco! Perché la sua arguzia e il suo umorismo a volte mordace, sono l'essenza dello spirito petroniano, dimostrazione questa che da allora ad oggi, anche in questo caso, poco è cambiato. Domani non so. Poi se non era un accademico, poco importa. Se non era "celebre" come suo padre importa ancora meno, però è di lui e non di suo padre che, a parte le enciclopedie, qui a Bologna ancora si parla!
Ma è la cosiddetta "lingua bolognese" usata dal Mitelli che più m'interessa e che è più congeniale a questa raccolta. Tralascio perciò le immagini, le critiche ed i versi in italiano per esaminare due riproduzioni che ho trovato:
-
una del 1691 "AL ZVOGH D'LA CITTA' D'BVLOGNA",
l'altra del 1705 "CVMPENDI DAL STAT D BULOGNA"
-
La prima mostra una rudimentale pianta della città, con le varie porte ed i principali monumenti, che è in pratica il percorso di una specie di "Gioco dell'oca" da fare con i dadi. Comincia con la presentazione:
"Als zoga cvn tri da, mittand prima su vn tant pron e po' s tira pr la man: sigond al pvnt ch'srà fatt al s tira o ch'al s'paga, cvnforma s ved li su. Qvel ch's'tira è sò, e qvel ch's paga s'azzvnta in s'al zvogh: e chi fa 8 tira tvtt".
"Si gioca con tre dadi mettendo prima una posta per ciascuno e poi si gettano alla mano. Secondo il punteggio ottenuto si vince o si paga, secondo ciò che si vede (il risultato). Ciò che si vince si tiene per sé, ciò che si paga si aggiunge al gioco (al piatto). Chi fa 8 vince tutto".
Poi scrive due versi per ogni "stazione" o casella del gioco:

Porta strà Stievan----------Tulì sti tri quattrin pr un poc d'arssor
------------------------------e andà pian ch'arrivari a Pianor.
Porta strà Mazor----------Tirà un quatrin e aviav bel bel a piè
-----------------------------ch'fin a Forlì cun l'asn av'vien po' d'driè
Porta S. Vidal--------------Pagà un quatrin ch'an'v'n'arstarà piu tant
-----------------------------e andav a cunsular ai Mindicant.
Porta Strà s. Dvnà--------Dunin è mort e mssier Dunà stà mal
----------------------------mt ti zò un quatrin a andà a bevr un buccal.
Porta dla Mascarella------Pr sta porta al Carnval entra in città
----------------------------pagà mo' un bagaron ch' s'i dsdittà.
Porta d'Galiera------------Talun torna dal moss e qui trabucca
----------------------------pr ch'ass vuoda al buccal es s'imp la zucca
Porta dl Lamm------------Pr andar al Tresb quista è la vera viè
----------------------------tirà un quatrin da spendr all Hustariè
Porta d'S. Flis-------------Questa è la porta friquentà piu d'tutt
----------------------------pr la gran zent ch'al Chiù va' a far da dstrutt
Porta S. Isiè--------------Al blett mandà pr d'qui 'ndonn'a Crsplan
----------------------------e quy ch'van cinquantand passn a Bazzan.
Porta d'Saragozza--------Pr sta porta i summar ch vienin d'muntagna
----------------------------fan'intrar i marun cun la castagna.
Porta S. Maml------------Avgnissi anca vù a vedr al Bisson
----------------------------dà mo' d'vostra fadiga un bagaron.
Porta strà Castion-------S'anden all' Grott d'Mrlin cuccai ai son
----------------------------però as paga all'intrar un bagaron.

E queste erano le 12 porte della città. Le parole sono ancora abbastanza bene comprensibili, tranne alcune che a me non sono ancora chiare, ma m'informerò: dsdittà, moss, trabucca, da dstrutt, blett, Bisson, cuccai ai son e Grott d'Mrlin, (l'odierno Grottino?), ecc.
Ora il Mitelli dedica i due versi ai monumenti interni della città:
-
La Torr d'i Asniè Qui su in sta torr s'ved cent e trei città
tirà mo' trì quattrin sa sy sudà
La Torr mozza Sotto la mozza si pela i marun
mo ch'm'an i da al quatrin ansin cui un.
La Funtana d'Piazza Sie malanazza quel Zigant d'Piazza
tirà tutt i quatrin ch'al bon pro v fazza. Tira Tutt.
Al Palazz S'andà in Palazz tgniv dal Turron in su
dai un quatrin parch'als' dsmentga d'nù.
La Sala dal Putstà Quest vien à la cumedia es'n ha al bultin
turnà po' all'att baron cun du quatrin.
La Cavallarizza Avgnì al smanezz es n'n havy ch'smanzzar
puvrazz dai tri quatrin e fal truttar.
Port dl nav Qui e' al port dl sport e qui s negozia in zergh
stram e ldam e malann pr Malalbergh.
Al Mercà Sdì 'pur in sal mercà'al zough dal ballon
ch'l arriva al zopp e s vol un bagaron.


Il disegno è completato da una faccia che ride ed una che piange, con le scritte: "ch'tira ridrà" "e chi perd pianzrà"
-
La seconda immagine mostra una figura con una lanterna al centro e due cavalieri ai lati che si allontanano nelle opposte direzioni, con la scritta:
-
CUMPENDI DAL STAT D BULOGNA DOV S'FA' TUTT'I MASSAR
AL DUTTOR LANTERNON MANDA A INVIDAR TUTT' I MASSAR DAL CUNTA'
D'BULOGNA PER FAR UNA FESTA DA BALL' PER AVER FATTA SPOSA LA
FLIPPA DA PANZAN SO SERVA ES VOL DUNAR A TUTT' I MASSAR UNA
DOBLA PRON PUR CH'I FAZEN UN BALLET CON DETTA SERVA E AL SPOS
E BARBAGIAN MASSAR D' ROCCA CURNEDA

Per la verità non tutto è comprensibile a noi posteri, sia perché siamo ignoranti e non sappiamo nulla di glottologia e poco del passato, sia perché certe usanze, personaggi, abitudini e parole sono spariti, sia perché il dialetto scritto a quei tempi (e anche l'italiano) è un po'… approssimativo!
Tuttavia da queste sole due tavole (le uniche, delle 100, scritte in "lingua bolognese") si possono dedurre parecchie curiosità sia sulla toponomastica che sul dialetto. Rileggiamo per ordine:
-
- "cunforma" (a seconda, conformemente), una parola che i nostri nonni ancora usavano, ma che è ormai sparita.
- "quatrin" era la moneta dell'epoca (¼ di baiocco), parola peraltro rimasta.
- "arstarà" (resterà) oggi si usa il verbo "vanzèr".
- "Mindicant" così era detta la chiesa di S.M. della Pietà a porta S. Vitale.
- "buccal" (boccale) oggi si usa il più comune "bichìr" o "bichirén".
- "Carnval" a conferma del carnevale bentivolesco, cui la porta deve il nome ma ci sono notizie di Sancta Maria de Mascherella già nel XIII secolo!
- "Tresb" forse il Trebbo, località fuori porta. "Chiù" idem, ma non capisco il "da dstrutt". "Crsplan" e "Bazzan", Crespellano e Bazzano.
- "bagaron" è il bagarotto: antica moneta di rame del valore di mezzo bolognino coniata dal Capitano del Popolo Bagarotto.
- "La Torr Mozza" la Garisenda detta talvolta ancora oggi Torre Mozza.
- "Sie malanazza" interessante questa maledizione, ormai scomparsa, che è parente delle meridionali "mannaggia" e "mannaia" (mal ne abbia) come:
- "al bon pro v fazza" (buon pro' vi faccia) sparito anche dall'italiano.
- "als'dsmentga" (si dimentichi) oggi si dice "al se scórda".
- "Funtana d'Piazza, Zigant, Palazz", oggi Nettuno e Palazzo Comunale.
- "cumedia" discorso poco chiaro, forse c'era il teatro al P.zzo del Podestà.
- "La Cavallerizza" del palazzo Rusconi (p.zza Malpighi), dove, a quanto pare, vi era un maneggio (spagn: cabaleriza), simile a quello viennese che sarà istituito nel 1729.
- "Port dl nav" (Porto delle navi) tra le porte Galliera e Lame, da dove usciva il Canale di Reno e dove evidentemente era il porto.
- "s negozia in zergh" probabile riferimento al fatto che "si negoziava in gergo", cioè nel gergo dei commercianti o dei marinai.
- "Mercà" lo stesso luogo dove c'è oggi, cioè l'attuale P.zza 8 Agosto.
- "pianzrà" (piangerà) oggi s'usa unicamente il verbo "zighèr".
- "dobla" probabilmente una moneta. Ma tutta la tavola del 1705 sembra un componimento di circostanza, simile alle più recenti "zirudèl", dove si prendevano in giro i personaggi di una determinata cerchia.
-
Interessante è lo sporadico uso della lettera "y".
Probabilmente, per un glottologo professionista, queste mie osservazioni sono ovvie ed ingenue, ma le faccio ugualmente, perché né io né i miei tre lettori siamo glottologi professionisti! Dunque procedo.
Sono costretto a tornare sul tormentone della "patata bollente", cioè sulla grafia del dialetto. Potrei dire che il Mitelli, maestro nel disegno e geniaccio della rima, ancorché semplice ed ingenua, non era altrettanto bravo in quanto a scrittura. Ma un uomo che è stato "professore all'Accademia Clementina", come ricorda il Cencetti, oltre che figlio del "famoso" Agostino, si presume che non fosse un ignorante e perciò sono indotto a pensare che la strana ed approssimativa grafia del bolognese che lui usa non sia da addebitare altro che all'assenza di regole in materia. Assenza che perdura tutt'oggi, anche se, dopo il Menarini, mi pare che gran parte di questa lacuna sia stata colmata (…almeno per me e per chi la pensa come me!).
L'uso della "v" al posto della "u" (e in altri testi viceversa!) come quella "s" simile ad una "f" che si trova altrove nei corsivi, rendono difficile la lettura all'uomo di oggi. Curioso è anche l'uso degli apostrofi, che a volte mancano ed altre volte sono eccessivi, come anche la mancanza di alcune vocali interne (es.: Crsplan che oggi si pronunzia Crasplàn e mi riesce difficile credere che quella fosse la pronuncia d'allora). Infatti il mistero che più mi affascina (e che non potrà mai essere risolto) non è come "si scriveva" il dialetto, ma come "si pronunciava"! Se dovessi seguire questa grafia, adottando le regole fonetiche dell'italiano d'oggi (come insegna il Menarini), ne uscirebbe un curioso idioma, più simile al dialetto della provincia che non a quello di Bologna. Sono più propenso a credere che allora, ma anche nell'800 e purtroppo ancora oggi da parte di alcuni, si usasse una grafia approssimativa, che implicava la convinzione bizzarra che il dialetto andasse scritto in un modo per… essere pronunciato in un altro! Comunque sia, resto convinto che il dialetto di tre secoli fa, benché scritto in questo modo, non doveva essere molto diverso da quello di oggi (quanto a fonetica) o comunque non dovrebbe essere cambiato più di quanto non sia cambiato l'italiano, nello stesso periodo.
Come ho già detto altre volte, credo che le lingue cambino, cambino le parole, cambino i significati delle parole, ma che la fonetica cambi molto più lentamente. Faccio un solo esempio: "zvogh" (gioco) oggi si scrive e si dice "zùgh": può darsi che allora si pronunciasse "zògh" (e ci credo poco), ma non credo affatto che si pronunciasse "zvogh" o "zuogh"!
Un'altra vignetta del 1691, trovata di recente tra i miei testi, raffigura un ricco ben vestito e ridente, con una borsa di denaro in mano e un povero cencioso in lacrime, dal titolo:

AL RICC STA' IN SPASS, E CANT E AL POVR IN STENT, E PIANT
(e sotto questi 8 gustosi versi in dialetto)


Ch'n'ha' robba, ne qvatrin l'e' vn brvtt cvmpagn,
l'è tgnv', ch'al sie vn pvltron s'al fvss'vrland:
chi al'cgnoss, e chi n'l'acgnoss l'hà int'l calcagn,
e'l dsgrazi i piovn adoss da tvtt'l band:
al n'l'arpara al fraiol, ch l'hà d'tela d'ragn,
cvn la zvnta dal vent, ch'i và svpiand.
Ngvn al vol, né pr amigh, né pr parent
s'aln n'hà da crvvers ben, da sbattr al dent.


Un discorso che, nel dialetto bolognese attuale, apparirebbe circa così:

Chi n'à róba e quatrén l'é un brótt cumpàgn
as cràdd ch'al sia un pultràn s'al fóss urland:
chi al cgnóss e chi an le cgnóss l'à int al calcàgn
el g'gràzi i pióv'n adós da tótti el band:
an l'arpèra el fraiól, ch'l à ed tàila ed ràgn
con la zónta dal vànt ch'al va supiànd.
Inción le vól pr'amigh o par parànt
s'al n'à da cruvers, ban, ch'al sbata al dant


cioè: IL RICCO VIVE DI GIOIA E CANTO, IL POVERO DI STENTI E PIANTO

Chi non ha beni e quattrini è un brutto compagno,
si crede che sia un fannullone, se fosse Orlando (???)
a chi lo conosce e a chi non lo conosce sta sui calcagni
le disgrazie gli piovono addosso da tutte le parti:
non lo ripara il mantello che è come una ragnatela,
con l'aggravante del vento che sta soffiando.
Nessuno lo vuole né come amico, né come parente,
se non ha da coprirsi, beh, che batta i denti!


Note: "l'è tgnù" cioè "è tenuto = si ritiene" e "poltrone" è una parola offensiva che avevo già trovata in un testo bolognese coevo. Non capisco affatto il riferimento ad Orlando (???), mentre suppongo che "stare sui calcagni" possa significare "essere antipatico, evitato", mentre "fraiól" è l'antico "ferraiuolo = mantello". "Ngun", anche questa grafia l'avevo già vista per significare "nessuno". Infine l'ultima strofa che si può "tradurre" come sopra, oppure " non ha da coprirsi bene, (tanto) da battere i denti" La differenza tra la grafia dialettale di allora e quella di oggi è notevole ma credo che il motivo principale venga dalla scarsa istruzione di quei tempi e più ancora dalla scarsissima consuetudine al dialetto scritto.
Oggi, dopo Menarini, abbiamo una grafia che, ricalcando quella della lingua, riproduce in modo piuttosto esatto la pronuncia attuale.
Le differenze più consistenti sono invece quelle relative a parole o modi di dire che sono ormai scomparsi o in via di sparizione e sono quelli che riporto qui sopra. Differenze che ci impediscono di capire il riferimento a "urland" e di supporre soltanto cosa significhi "l'à int al calcàgn".
A parte queste considerazioni su grafia e parole e detti scomparsi, resto sempre convinto che, se potessimo sentire parlare un bolognese del 1691, la sua pronuncia non sarebbe molto diversa da quella di un concittadino del 2005! Cambiamenti ne saranno avvenuti, poiché le lingue cambiano, ma non così grandi come le due grafie farebbero supporre.
Ho già parlato di questo "tormentone" tante volte che sono venuto a noia perfino a me stesso, ma ogni volta che mi imbatto in antichi documenti scritti in dialetto, riscontro differenze che rafforzano sempre più i miei convincimenti e…non posso fare a meno di sottolinearlo!
Sono molto tollerante con gli Autori dell'epoca, poiché essi facevano come potevano (e lo disse Annibale Bartoluzzi già nel 1779), ma mi irritano moltissimo certi autori di oggi che, per loro ignoranza o con l'intento di imbrogliare la gente, riferendosi ai testi antichi, si ostinano ancora a proporre grafie ormai superate e, sopra tutto, inesatte.
-
P.S. Tra le altre cose, G.M. Mitelli è stato anche l’inventore del "Gioco dell'Oca"!
-
Paolo Canè

Proverbio n. 230

Al cùl an i tàcca la camìsa.
Dicesi di chi cammina impettito.

Proverbio n. 229

Scurzèr ch'mé un brécch mantvàn.
Evidente caratteristica dei montoni lombardi.

Proverbio n. 228

V'làir al lén e al cùl chèld.
Volere la botte piena e la moglie ubriaca.

Proverbio n. 227

Vén pisè dai ànzel.
Ottimo vino.

Proverbio n. 226

Vanzèr con i marón strà l'óss.
Trovarsi in situazione critica.

Proverbio n. 225

Và a fèr del pugnàtt (…di buchén…di gróggn).
Vai a quel paese (allegro)!

Proverbio n. 224

Và a dèr vì al cùl (vàl a ciapèr…vàt a fèr dèr…).
Vai a quel paese (andante)!

Proverbio n. 223

Và a caghèr!
Vai a quel paese!