lunedì 19 maggio 2008

FINALMENTE BOLOGNA!

È ancora presto per dirlo e dovrei tacere per scaramanzia, ma è stata tanto grande la gioia di ieri che non riesco più a trattenermi! Se avessimo dovuto ricorrere a dei “ballottini” per fare vincere (e anche bene) il Bologna e contemporaneamente fare perdere sia il Lecce (in casa) che l’Albinoleffe, le cose non sarebbero riuscite meglio di così! Chi l’avrebbe detto che, dopo la partitaccia di sabato scorso, saremmo passati (calcisticamente) dall’inferno al paradiso in sette giorni, e, a giudicare anche dalla gioia da bambino che ha mostrato ieri Cazzola, nessuno se l’aspettava.
È ancora presto, poiché bisogna andare prima a Mantova e poi vedercela in casa col Pisa (due partite che ora dobbiamo vincere, a costo di… ricorrere alle armi!), ma possiamo dire che probabilmente il più è fatto in questo campionato sofferto e bellissimo, il quale ci ha regalato emozioni incredibili, nel bene e nel male.
È ancora presto, ma voglio dirlo ugualmente, come se fossimo già promossi in serie A, poiché è troppo tempo che alcune cose mi stanno sullo stomaco, perciò, anche se malauguratamente le cose dovessero andare (ancora una volta) male, i sassolini dalle scarpe bisogna toglierseli, ogni tanto!
Se saremo promossi io dedicherei l’impresa al Bologna stesso, al suo pubblico e al suo Presidente, ma anche alla (brutta) faccia di quei due “gufi” televisivi (Fascetti e D’Amico) i quali per tutto l’anno hanno parlato male del Bologna o comunque ne hanno parlato solo quando perdeva! Del resto il Bologna non ha, non ha mai avuto santi in paradiso: solo nei primi 30 anni di vita riuscì a vincere 6 scudetti e 2 Coppe Europa (allora “faceva tremare il mondo”), poi la notte: 70 anni di buio, di serie B e C, rischiarato soltanto dalla perla del settimo scudetto, 40 anni fa. Ma anche allora (io c’ero) non fu facile: ci accusarono di tutto, di droga e d’altro, ciò che non è mai stato fatto né prima, né dopo nei confronti di una squadra di calcio. Ma ciò non fece che raddoppiare la gioia della sconfitta inferta alla supponente Inter a Roma, (godo ancora al pensiero!). Del resto i bolognesi, certi dell’innocenza dei loro pupilli, già allora ci scherzarono su con la loro tradizionale ironia e coniarono nuovi nomi per giocatori e squadra (lo dico per i giovani d’oggi, che forse non lo sanno): Negrisolis; Droganis, Pastigliato; Punturus, Simpamjanich, Siringfogli; Bombani, Pillorelli, Oppinielsen, Morfinhaller, Fialutti. All: Bombardini, Presid: Dalla Droga…e poi diventammo campioni d’Italia, alla faccia di chi ci voleva male!
Questa bellissima città, nella quale tutti stanno benissimo è, almeno calcisticamente (e di recente pare anche cestisticamente!) odiata da tutti quelli che contano: chissà perché? Che sia una questione di denaro? Che sia una questione di agganci politici? Che sia un’antipatia verso chi è (e che è sempre stato) primo della classe in molti campi? Vattelappesca, tuttavia non meravigliamoci per corruzione e disordini in fatto di sport. Noi non abbiamo inventato niente e sotto il cielo non c’è nulla di nuovo; basti pensare che nella Bisanzio di Giustiniano, nel 532 d.C., in seguito a disordini scoppiati all’ippodromo per una corsa di carri, intervenne l’esercito e ci furono 30 mila morti. Al confronto, le attuali risse da stadio e i “casini” di Moggi non sono niente, anche se ovviamente restano cose da combattere e debellare!


Cazzola e tutto lo staff debbono lavorare sodo per cancellare questo vergognoso comportamento riservato al Bologna e, badate bene, il mio non è vittimismo a buon mercato: ci sono i fatti che lo dimostrano. La squadra è stata ingiustamente sbattuta anni fa in serie B, ciò che non sarebbe mai accaduto a “certe altre” squadre.
Gazzoni è certamente una brava persona, ma assunse alcuni atteggiamenti, anche giusti, i quali però non hanno fatto che peggiorare la situazione: mi riferisco a ciò che disse sulle tasse non pagate, specialmente dalla Roma, nel periodo in cui la società capitolina doveva essere acquistata dai Russi, i quali ritirarono l’offerta. Ma, attenzione, credo che abbiano ritirato l’offerta per le esose richieste finanziarie della Roma, non per le parole di Gazzoni, tuttavia, in quell’occasione, incredibilmente, Giorgio Tosatti (pace all’anima sua) ebbe il coraggio di dire che “la Roma avrebbe dovuto chiedere i danni al Bologna!”. Una roba da matti: fare gli offesi perché si accusa di non pagare le tasse quelli… che non le pagano!
Comunque sia, consiglio i dirigenti rossoblù, d’ora in avanti, di badare in casa loro e di adoprarsi per ridare al Bologna quell’immagine che ha avuto fino al 1940! Per attirare sul Bologna quelle simpatie che sono riservate a quasi tutte le squadre e squadrette delle serie A e B,senza tuttavia pretendere i favori riservati alle 4/5 grandi!
Il Bologna merita la serie A sia per il suo impianto sportivo, sia per la gente (molto competente e tranquilla) che manda allo Stadio, sia, soprattutto, per il fatto che è la ottava città d’Italia per numero di abitanti! Le altre sette che la precedono, hanno due squadre (Milano, Roma, Torino e Genova) o anche una sola (Napoli, Palermo e Firenze), ma tutte in serie A!
Non dimentichiamo neppure che la nostra Bologna, tanto amata (da noi) e tanto ignorata, se non osteggiata (dagli altri), è dunque tra le prime otto città d’Italia e che l’Italia è tra i primi otto Paesi più industrializzati e perciò più importanti del mondo!Perciò, quando parliamo della sua squadra, non stiamo parlando di niente!
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Paolo Canè

DAL BARBIR 6 (n. 141)

Un barbìr l'éra sàmper in pulèmica con un só cliànt viazadàur:

"Bàn, ló l'é stè a Parìg' e an é brìsa andè in vàtta à la Tàrr Eifèl?"
E po': "Bàn, l'é stè a Milàn e an à brìsa visitè al Duòmo?"
E ancàura: "Bàn, l'é stè a Viènna sànza visitèr al Pràter?"

Infén che un dé al cliànt, ormai stóff, a gli dìs:

"L'èter dé a sàn stè a Ràmma e a sàn stè arzvó dal Pèpa in fàurma privè!"
"A sé?" al dìs al barbìr curiàus "e alàura?"
"E alàura am sàn inznucè davànti a ló e ló al m'à méss una màn in tèsta e am à d'mandè: "Di' só, chi él ch'al cagnàz ch'at tàusa?".

PÌLADE (n. 140)

Int al cafà, Gisto l'incàntra Frédo ch'al spudèva e a gli d'mànda:

"Cus'èt fàt? Èt magnè quèl 'd catìv?"
"Mocché: a zughèva a biglièrd con Pìlade e ai ò méss una bòcia ch'l'éra impusébil d'andèri a cùl, alàura ai ò détt "Se t'riès in ch'al càulp qué, at plócch al cùl". O Dio, mé a sàn stè fórsi esagerè, però (e al cuntinuèva a spudèr)… però che zugadàur ch'l'é Pìlade!".

AT DÉGGH ED SÉ!

E’ una strana espressione che viene detta con un pizzico di rabbia, quando si vuole affermare qualcosa di certo, ma che da altri viene negato oppure quando ci si vuole lamentare energicamente per un certo accadimento. "Al m'à dè ló l'apuntamànt e pò al n'é brìsa v'gnó! At déggh ed sé!" (lui stesso mi ha dato appuntamento e poi non si è presentato! Ma, dico io!). Nella pronuncia la "s" diventa "c" e suona così: "at déggh ed cè!" e il bello di questo modo di dire, seppure in via di sparizione, è che la gente di scarsa cultura se lo porta anche in italiano: "Ti dico di sì!", esclamazione a cui noi non facciamo caso, ma che suona piuttosto inconsueta agli orecchi di un forestiero!
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Paolo Canè

CURIOSITÈ (n. 139)

Al maré al tàurna a cà e al dìs con só muiér:

"Al sèt? I m'àn détt che dàntr'a ch'al palàz qué ai é ón sàul ch'an é brìsa bàcch!"
"A sé? E chi él?".

AL MÈL ‘D PÀNZA (n. 138)

Una sgnàura la và dal dutàur:

"Sgnàur dutàur, ai ò sàmper un gràn mèl qué in fànd à la pànza".
"Ch'l'ans preócupa, l'é tott'ària: ch'la fàga dàu scuràzz e al pàsa incósa!"

La sgnàura l'ans fé pió vàdder e dàpp pió d'un àn al dutàur à l'incàntra par la strè con du ragazulén e a gli d'mànda:

"Chi du bì ragazulén lé éni su fiù?"
"Nà, egli én dàu scuràzz f'té à la marinaràtta!".

OTTURAZIONI

Come l'italiano ha diversi termini per definire una qualsiasi otturazione (chiudere, otturare, occludere, tappare, intasare, serrare e perfino zaffare), anche il bolognese prevede una certa varietà, ma si tratta di parole quasi del tutto diverse! Infatti di simile c'è solo asrèr o srèr (serrare) che è il solo verbo col significato di "chiudere" o "spegnere": srèr l'óss, srèr la bàcca, srèr al rubinàtt, srèr (smurzèr) la lùs ecc. anche se, per facilitare la lettura a prima vista, sarebbe meglio scrivere s'rèr. Direi che questo verbo, largamente in uso, sia quasi il solo che viene usato per ogni chiusura.Se invece passiamo all'idraulica (ma non solo all'idraulica) ci sono altri due curiosi modi per indicare tubi o condotti chiusi, in questo caso "otturati" o "intasati" e cioè stupèr e (a)munìr. Al tùb (al bùs) l'é stupè, al césso l'é amuné oppure muné.
Verbi che vengono talvolta simpaticamente tradotti in italo-bolognese "stopare" e "munire", ma che non hanno nulla a che vedere con i verbi italiani simili "stoppare" (che significa fermare, impedire) e munire (che significa attrezzare, dotare). "Non vedi che quel buco lì è stopato?", "Accidenti, il cesso è munito", sono espressioni che si sentono spesso dire scherzosamente (la seconda mica tanto scherzosamente!) e che farebbero ridere un forestiero o comunque lo lascerebbero perplesso, ma noi ci capiamo benissimo, proprio come per i più volte citati "rusco", "tiro", "ciapino", "spianare (un vestito)", ecc.: tutte parole nostre che tuttavia vengono sovente assimilate anche da forestieri che abitano a Bologna!
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Paolo Canè

MOCHÉ MOCHÉ, AN IÉ DÓBBI!

È l’espressione usata da chi nega una qualsiasi cosa nel modo più assoluto. A prima vista non si direbbe strana, poiché il moché (che potrei anche dividere in mó ché) ricalca l’italiano “macchè” e an ié dóbbi (che potrei anche scrivere an i é dóbbi) ha il significato dell’italiano “non c’è dubbio”. Eppure qualche differenza c’è!
Spesso il moché viene detto due, tre volte (moché, moché, moché) allo scopo di rendere ancora più forte la negazione e ricordo che mia nonna soleva abbreviare in ché, dicendolo almeno un paio di volte ché, ché, col significato di “no, no”, ma sono anni che non sento più questa espressione. È diventato raro anche mocchemài, altra negazione decisa che ha la caratteristica di venire pronunciata con due “c”, ciò che ne sottolinea l’enfasi.
Quanto alla locuzione an ié dóbbi, che spesso viene rafforzata come an ié mài dóbbi, essa presenta una sostanziale differenza con le varie forme italiane analoghe: “non c’è dubbio, non v’ha dubbio, senza dubbio, non c’è dubbio alcuno, ecc”. Infatti tutte queste forme italiane possono avere un valore sia positivo che negativo, mentre in bolognese ha solamente valore negativo. Quando si chiede a qualcuno: “I vèt té?” (tu ci vai?) e la risposta è semplicemente “An ié dóbbi”, significa che l’interlocutore non ci andrà affatto, mentre in italiano quelle sole parole non bastano, poiché potrebbero significare “no”, ma anche “si”. Se un bolognese vuole dire chiaramente che ci andrà, risponderà: “Ai vàgh sicùr!”. Potrebbe anche rispondere “Mó mé sé!” se andrà, oppure “Mó mé nà” se non andrà e qui si nota l’uso di questo strano, bolognesissimo . È diverso dalle forme omofone centro-meridionali dove “mo’” significa “ora, adesso”. Il nostro è sovente un “ma” che però non è particella dubitativa, come in italiano, ma esortazione rafforzativa. Mó sé, mó nà, mó dài, ecc. sono tutte forme rafforzative per un sì, per un no o per un’esortazione del tipo “orsù” (dài mò!),
É buffa, ancorché usatissima, l’espressione mó và bàn là, vén qué, un ossimoro sul quale i bolognesi stessi scherzano, poiché nello stesso momento in cui si esorta qualcuno ad andare “là”, lo si invita a venire “qui”! In realtà si tratta del suddetto “ma” esortativo, unito ad un secondo esortativo bàn (bene), parole che conferiscono alla frase un tono amichevole e bonario. Anche in italiano esistono forme del tipo “dimmi bene” dove si invita l’interlocutore non a dire in modo “corretto”, ma dove questo “bene” è un’esortazione simile al nostro bàn. Noi però diciamo anche il noto dì bàn só (famosa la frase: dì bàn só, fantèsma!) che spesso italianizziamo in “dimmi ben su”, forma che per un forestiero ha poco senso. Infatti sia bàn che sono due rafforzativi esortativi, il secondo dei quali potrebbe essere il fratellino bolognese del toscano “orsù”. Quando s’interpella qualcuno per un rimprovero o con intenzioni bellicose e non lo si vuole chiamare apposta per nome, lo si chiama così: dì só té (e in italo-bolognese: “dì su te”), la cui traduzione “nobile” potrebbe essere: “Dimmi tu, orsù!”, ma non avrebbe lo stesso valore semantico. Anzi, sarebbe un modo lezioso e cortese, mentre il nostro dì só té è il preludio di una…burrasca in arrivo!
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Paolo Canè