sabato 5 luglio 2008

TRA LE BRACCIA DI MORFEO

È incredibile il numero di pensieri e d’idee che ci vengono quando siamo a letto, in quei momenti che definiamo “tra la veglia e il sonno”. Sono cose anche interessanti che però, se non abbiamo la forza di alzarci e di prenderne nota, il mattino seguente saranno svanite come i sogni! E interessanti sono sicuramente le parole del dialetto che hanno a che vedere col riposo quotidiano.
Coricarsi: è una parola che in bolognese non esiste. Noi diciamo “andèr a lèt”, come del resto si dice anche in lingua. Si dice invece al Sud: “cuccà” in napoletano, che è analogo al francese “coucher”, e qualcosa di simile anche negli altri dialetti. Curioso (e d’origine latina!) è il calabro-siculo “vaiu me curcu” (vado mi corico=vado a coricarmi) ed anche il termine “ritirarsi” che ha lo stesso significato, ciò che da noi invece significa soltanto: “diventare più corto”!
In via di sparizione abbiamo anche il termine “agiachères” che è quasi certamente la versione bolognese di “giacere”.
Alzarsi: è un’altra parola che non esiste. Noi diciamo “livères” (levarsi) che peraltro si dice anche in lingua.
Dormire: anche noi diciamo “durmìr”, ma è curioso ricordare come una volta si dicesse “al drómm” anziché “al dórum“ (egli dorme), mentre “indurmintè” significa addormentato, detto anche di persona imbranata! Curioso è anche un termine, ancora ben vivo, d’evidente estrazione latina: “cubièr”. Infine, per esaurire le curiosità, abbiamo “la dórmia” che è l’anestetico. “Dórmia” è anche voce verbale di quel tempo che io ho chiamato “interrogativo dubitativo”, inesistente in lingua, come anche “vàghia o stàghia?” (vado o resto? Con insito il dubbio).
Sogno: si dice “insónni”, ma anziché dire “ho sognato”, si usa la forma riflessiva “am sàn insugnè” (mi sono sognato, anche in italiano, per gente meno acculturata).
Svegliarsi: nonostante che esita la locuzione “strà la véglia e’l sànn” (tra veglia e sonno), non esiste un verbo che riproduca l’italiano “svegliarsi”. Ne abbiamo uno tutto bolognese, difficile da scrivere e anche da pronunciare (per i forestieri) che è “z’dères”, da cui “z’dàzzd” (sveglio). A prima vista sembra una parola strana, anche perché fa pensare…ad un setaccio (sdàz), ma la spiegazione è molto più semplice: è l’esatta traduzione di “destarsi” e “z’dàzzd” significa “desto, cioè sveglio”.
Ho fatto alcune fantasie su questo termine che potrebbe essere partito da “dàst” e poi “sdàst” per arrivare a “z’dàzzd” e mi sono chiesto: perché la “z” e non la “s”? Perché non “s’dàsst”? Sempre restando nel campo delle supposizioni e delle fantasie, senza nessuna base di studi specifici, ho fatto caso che molte parole bolognesi che hanno la “z”,derivano da parole latine con la “x”.E’ il caso di “z’nèster” (lombalgia) dal basso latino “sinexter” (sinistro, accidente) ed è anche il caso del nostro “z’dères” (destarsi) che deriva dal latino “deexcitare”, cioè “de excitare” = chiamarsi fuori (dal sonno). E, dato che la scienza ha limiti, ma la fantasia no (e questo è un gioco che mi diverte moltissimo!) ho anche pensato che i latini potessero pronunciare la “x” in un modo che potrebbe essere simile alla “z”. Nei dialetti sardi, che sono forse i più vicini al latino, la “x” viene infatti pronunciata in modo “strano”: la località “Su Nuraxi” viene pronunciata “Su Nuraji” con un suono strascicato, tra “s” e “z”, simile al francese di “fromage”. Sono miei “voli”, d’accordo, ma spiegherebbero quanto detto sopra!
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Paolo Canè