mercoledì 3 settembre 2008

RIME IN PILLOLE (pagina 20)

Ferro alla Patria era la campagna di raccolta del ferro (dopo quella dell’oro) ai tempi dell’autarchia fascista.Vennero divelte le cancellate un po’ dappertutto e, in un’antica villa di Vedrana, la cui recinzione era stata eretta dal nonno Giacomo Zerbini, divelta dal regime e ricostruita dal nipote Antonio, figura la seguente iscrizione:

Giacomino ai la mité
e Benito a la cavé,
po’ Tugnàz ai l’armité
e ch’la sèppa finé lé!


Una lapide sulla Garisenda ricorda i versi di Dante (Inf. XXXI):

Qual pare a riguardar la Garisenda
sotto il chinato quando un nuvol vada
sovr’essa, sì ch’ella in contrario penda:
tal parve Anteo a me che stava a bada
di vederlo chinare…


(A.Menarini-A.Vianelli, Bologna per la strada,1973)


Ai bambini col moccolo al naso:

Cùmm t’um piès, cùmm t’um piès
con la gàzza sàtta al nès.


***
Vittorio Emanuele
che mangia le candele
le mangia senza pane
scorreggia come un cane


***
Un famoso scongiuro di noi ragazzi:

Terque quaterque
testiculum tactis
palleggiatoque augel
scrotoque pilis :periculum fugatum est.
-
Paolo Canè

I DU LEÓN (n. 165)

Dimóndi àn fa, dù león i scapénn dal Circo Medràno a Bulàggna. I zarchénn dapartótt mó in riusénn brìsa a caturèri. Dàpp a un àn i dù león is truvénn dal pèrt d'la staziàn: ón l'éra bèl gràs técc' e ch'l'èter l'éra mègher stlè! Al gràs a gli d'mànda:

"Mó dùv'it stè, t'i tótt acsé mègher e spnacè?"
"Stà bàn: a sàn stè int la bàsa, dùvv'ai éra una miséria ch'la fèva i cinén: an i éra gnìnta da magnèr par la zànt, figùret s'ai n'éra par mé! Té pitóst, ch't'i acsé bèl gràs, dùv'it stè?"
"Ah, mé a sàn vanzè in zànter a Bulàggna: am sàn méss pr'un àn davànti a Palàz Pizèrdi in Via D'Azeglio, ai ò magnè un feroviér tótt i dé e inción ans n'é mài acórt!".

I DU RAPRESENTÀNT (n. 164)

Dù rapresentànt d'eletrodomèstici is tróven e ón al dìs con ch'l'èter:

"Al sèt che al nóster coléga Mingózz l'é mórt?"
"Ah sé? E cùss'avèvel?"
"Ah, l'avèva la Triplex, la Zoppas e la Candy!"

AL PROGRÀMA (n. 163)

Dù pensionè is fàn el cunfidànz:

"Té cùmm vèla con la pensiàn? Ch'sa fèt tótt al dé?"
"Guèrda: a la matén-na apànna zdàzzd a fàgh 'na ciavadén-na, pò am lìv, a tóíi al cafà, a lèz al giurnèl e a fàgh v'gnìr mezdé. A màgn e pò a vàgh a lèt e a fàgh un'ètra ciavadén-na e dàpp am lìv e a vàgh a girèr par fèr v'gnìr l'àura ed zànna. A màgn, a guèrd la televisiàn, pò a vàgh a lèt a fàgh un'ètra ciavadén-na e am métt a durmìr".
"Sócc'mel, mó quant'él t'vè avànti con ch'la mùsica qué?"
"Ah, a tàch lonedé!".

AL BARACÀN

È una parola dal quadruplo significato: un baraccone, un festaiolo, un tipo di abito arabo e il Baraccano. Il baraccone, propriamente una grande baracca, può anche essere un veicolo o un qualsiasi aggeggio antiquato e malfermo, oltre che, specie al plurale, il Circo o un padiglione del Luna Park (vedi l’espressione: un fenómen da baracón). Il diminutivo femminile (la barachén-na) è invece l’edicola dei giornali o il chiosco dei gelati, mentre quello maschile (al barachén) è semplicemente una baracca piccola o il piccolo palcoscenico dei burattini, detto peraltro anche “baràca”. Inoltre, dato che stare in compagnia, mangiare,bere e cantare,si dice “stèr in baràca”, l’aggettivo si può riferire anche a chi ama gozzovigliare. È un’espressione tipica delle nostre parti, ma usata in molti altri dialetti; lo stesso vale per “andèr in baràca” che significa, in molte Regioni, andare a catafascio. La stessa parola si adatta anche ad un indumento tipico dell’Africa settentrionale (che però in italiano,come in diverse altre lingue, si scrive “barracano”) ma che nel nostro dialetto, povero di consonanti doppie, si scrive e si pronuncia come sopra. È tuttavia parola poco usata per bolognesi…colti! Infine il Baraccano che è una chiesa, addossata ad un residuo di mura, sorta intorno ad un’immagine della Madonna, dove i bolognesi vanno a “prendere la pace” dopo il matrimonio, infatti si chiama anche Chiesa della Pace. Era, o avrebbe dovuto essere, il tempio di Giovanni II Bentivoglio e quel vialetto che sbocca sulla via Santo Stefano in un occhio di portico molto alto, si dice che avrebbe dovuto collegare la chiesa con la “domus aurea” di Giovanni che sorgeva dove è oggi il Teatro Comunale. Ma tutto restò incompiuto, poiché quella Signoria ebbe vita breve e passò alla storia come un periodo infausto, mentre molti credono che, se fosse durata di più, forse avrebbe portato a Bologna le stesse cose che Medici, Gonzaga ed Este portarono nelle loro rispettive città! Ma Bologna era città guelfa (e forse lo è ancora oggi!) insofferente a Signori ed Imperatori, ma disposta, seppure obtorto collo, a restare coi Papi. Quanto alle etimologie di questa parola sono più di una:
Baracàn (come baràca) nel significato di “baracca” proviene da una voce spagnola, forse preromana, ”barraca” che era una capanna di pastori.
Baracàn nel significato di “gaudente” potrebbe riferirsi alle gozzoviglie intorno alle baracche dei vivandieri, ad esempio, di un esercito.
Baracàn nel significato di “barracano” deriva, ovviamente, dall’arabo “barrakan” che era un grosso cammello e un tessuto fatto della stessa stoffa o lana.Baracàn, infine, nel significato di Baraccano, ha una storia un po’ più complicata: è corruzione del vocabolo ”barbacane” che era un rinforzo esterno alle mura delle antiche città, infatti, dietro la chiesa, tale rinforzo è ancora evidente e,fortunatamente, non abbattuto, grazie all’esistenza della chiesa stessa. Parola d’origine incerta: c’è chi dice dal persiano bala (alto) khana (casa), chi dall’arabo bab (porta) al baqara (delle vacche, poiché il bastione proteggeva il recinto degli animali (termine forse preso in prestito dai Crociati) e chi dall’arabo barbahhane, il quale però è un canale d’acqua che col bastione non c’entra nulla. Come accade spesso, i dubbi restano, ma un “baracàn con un baracàn int un baracàn atàis al Baracàn” è un crapulone vestito da arabo che sta in una baracca vicino al Barracano!
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Paolo Canè

IL BOLOGNESE IN CUCINA

Lungi da me l’idea di parlare di cucina, argomento già fin troppo trattato da ogni rete televisiva, da centinaia di libri e riviste, del quale, peraltro, non capisco nulla.
Voglio solo parlare di alcuni arnesi della cucina, il cui nome è apparentemente strano, poiché abbastanza lontano dal termine della lingua. Tralascerò quindi moltissime parole come “p’gnàta, misclén, tàza, curtèl, cuérc’, ecc.”, poiché non molto dissimili dalle corrispondenti in italiano “pignatta, mestolo, tazza, coltello, coperchio, ecc.”
La terminologia che riguarda, oltre la cucina, tutti i mestieri tradizionali (falegname, muratore, meccanico, ecc.) comprende molte parole tipicamente dialettali e questo succede in tutti i dialetti. Parole che vengono spesso “italianizzate” dando origine a buffi incroci che sono comprensibili solo agli utenti di quel dialetto. Ma vediamo alcuni termini che riguardano la cucina, con i corrispettivi italiani, italo-bolognesi e con qualche tentativo di spiegazione etimologica:
buvinèl (imbuto), parola ormai sconosciuta ai giovani, ma che non ha altro termine, se non lo scherzoso “buvinello”, detto anche a chi è molto fortunato (bu…). Ogni regione ha il suo termine tipico: qualcosa di simile a “embusùr” (Piemonte), “pidariòl” (Romagna), ecc., il primo simile a ”imboccatore”, di chiara influenza francese (anche se il termine ufficiale è “entonnoir”, infatti “entonner” significa “mettere in botte”), il secondo…non so proprio da dove derivi! Il nostro “buvinèl” potrebbe avere a che fare con la radice “buv-“ (pure d’origine transalpina) che è alla base di altre parole, come “buvette=bettola, osteria” ed è forse lo stesso “bu” inserito nella parola “imbuto”, ma anche “be-“, “bi-“ di bere, bibita,ecc., stavolta di certa origine latina. Una fonte fa risalire “buvinèl” a “imbutinello”…sarà vero?
calzàider (secchio), più propriamente “secchio di rame”, termine usato anche dai muratori, che è però in fase di avanzata obsolescenza, poiché è ormai sconosciuto anche a molti adulti, in quanto sostituito da “mastèla”. Questo antico termine dovrebbe derivare da una voce del latino medievale del tipo “calcitrum”.
gradèla (graticola) che solo scherzosamente noi chiamiamo “gradella”, magari senza sapere che “gratella” è parola antica, ma ancora esistente come diminutivo di “grata”, come, del resto, lo è anche “graticola”, più aderente però al latino “graticula”.
pistadùra (tagliere) termine che a Bologna portiamo con disinvoltura, pari pari, in italiano, anche perché “tagliere” ci fa pensare ad un’altra cosa (vedi in seguito). E come “tagliere” si riferisce evidentemente a “tagliare”, così “pistadura” si riferisce a “pestare”, ma è anche probabile che perpetui un antico “pestatoia”, come, del resto, “pestatoio” è il ceppo su cui si pestano le castagne secche. Alcuni bolognesi, che intendono parlare bene l’italiano, rifiutano il termine “tagliere”, preferendo “mortaio” che però è cosa diversa, in quanto a forma di scodella e non piana.
ramén-na (schiumarola): chi chiama questo attrezzo col nome tosco-italiano, rischia di non essere capito, poiché da noi si dice sempre ed invariabilmente “ramina”! E’ probabile che il suo nome si riferisca al fatto che l’attrezzo era (e spesso è) di rame.
róla (teglia),che noi traduciamo in “ruola”,ma possiamo anche chiamarla giustamente “teglia”, poiché in dialetto esiste anche il termine “tàiia” col bellissimo diminutivo “tién” (colui o colei che tengono insieme la famiglia sono chiamati, secondo un vecchio detto, “quàll ch’tén drétt al tién”!).
ruscaróla (pattumiera), vecchio termine, ormai sostituito dal brutto “patumìra”, che si riferisce al nostro “róssch”, tradotto invariabilmente in “rusco”, parolina breve e perfetta che dovrebbe essere adottata anche dall’italiano, dove peraltro esiste, ma come “altro nome del pungitopo”!
scudèla (tazza), qui s’inserisce un malinteso tutto petroniano!In italiano la “scodella” è una grossa tazza, mentre per noi è il “piatto fondo”, quello usato per la pasta o per la minestra brodo (tra l’altro, il termine “minestra” è da noi usato anche per la pasta e per qualsiasi tipo di primo!). Perciò questo tipo di piatto, che in altre regioni si chiama “piatto fondo, fondina, piatto cupo,ecc.,da noi viene chiamato universalmente “scodella”.
sculadùr (colabrodo o colapasta) è parola dialettale che non è mai tradotta in italo- bolognese. Sembrerebbe simile ad un antico “scolatoio”, abbastanza simile ai termini in lingua, che fa parte delle tante parole bolognesi che iniziano per “s” come rafforzativo del loro intrinseco significato (scanzlèr, stravultèrs, spigazèr, ecc.), ciò che probabilmente accadeva anche in lingua e talvolta ancora accade (svuotare, col significato di vuotare completamente). Esiste anche l’ormai poco usato “passén” per indicare il “colino”, cioè un colabrodo di piccole dimensioni, che alcuni chiamano “culén”, incuranti del doppio senso!
spartùra (madia), termine antico che ormai non esiste più, anche perché la madia stessa non esiste più. È un termine che può apparire nei testi antichi, nelle poesie e nelle “zirudelle”, ma volerlo ancora usare oggi è un inutile esibizionismo.
sprunèla (rotella tagliapasta), il nome italiano di questo piccolo attrezzo è troppo lungo oltre che vagamente buffo. Per noi è invariabilmente la “spronella” e si usa quando si fanno in tortellini! Certamente deriva il suo nome dallo “sperone” che appunto ricorda nella sua forma di ruota dentata. Esiste in italiano anche il termine “spronella” o “speronella”, ma è il nome di una pianta!
stièr (acquaio) che noi tutti chiamiamo “secchiaio”, probabilmente perché un tempo, anche in mancanza del rubinetto, aveva un gancio al quale stava appeso il secchio. Si riferisce unicamente a quello di cucina, poiché quello del bagno si chiama “lavandén” e cioè “lavandino” (lavello)! È strano il fatto che solo il caso di “stièr” richiami la parola italiana “secchio” che, come abbiamo visto, era “calzèider” ed è “mastèla”. Singolare è il detto “lulé l’à al césso e al stièr in cà” per definire chi ha tutte le comodità, con riferimento ai tempi nei quali tali servizi erano, in comune, fuori casa!
tirabursàn (cavatappi), senza stare a sottilizzare se “tirabursàn” o “tirabursòn” (in questo e in mille altri casi le due pronunce coesistono), è l’unico termine per questo attrezzo che noi italianizziamo in “tiraborsone” solo quando scherziamo, per tacere del diffuso,pure scherzoso,“tirabusàn”. È notoriamente parola francese (tirebouchon) che fa parte, più o meno storpiata, di tutti i dialetti italiani dalle Alpi alla Sicilia.tulìr (spianatoia). Come nessuno chiamerebbe “tagliere” la “pistadùra”, così nessuno chiamerebbe “spianatoia” il “tulìr”, che a Bologna è per tutti il “tagliere”.
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Paolo Canè