martedì 30 settembre 2008

LA “ESSE” RACCONTA (parte 4 - ultima)

VARIAZIONI, a proposito di quanto ho appena detto, chiamo con questo nome diversi termini che il Mainoldi (ed altri) riporta in un modo, mentre io (ed altri ancora) ho sempre sentito in modo diverso. Si tratta di termini che farebbero parte di tutte le tre categorie fin qui indicate, ma che qui sono ovviamente insieme.

Sràin, sereno, ma io ho sempre detto e sentito S’ràggn, così come Ràggn (il Reno)
Sàin, seno, idem come sopra, quantunque raro, Sàggn. Ora per tutti è Pèt.
Sdarén-na, spazzola, più comune Z’darén-na
Sàuvra, sopra, si sente ancora, ma per quasi tutti è Sàura (però è meglio “in vàtta”)
Sbulgnèr, sbolognare, per me Sbulugnèr.
Sburgióll, vino leggero, che tutti chiamano Sbargióll
Scabuzèr, inciampare, Scapuzèr
Scanzì, scaffale, Scansì
Scièr, Scièlpa, Scimiót, Sciólt, Sciuchén (sciare, ma era più bello “sblisghèr”, sciarpa, scimmiotto, sciolto e schiocchino), queste ed altre sono tutte parole scritte con la “sc” che, come già detto, in bolognese esiste solo in due-tre casi, mentre in tutti gli altri si usa la nostra particolare “s” semplice. E questo Mainoldi lo sa, poiché più avanti riporta anche Simiót e altre parole simili, come Séna, scena; Siàl, scialle, ecc.!
S’ciàvvd, insipido, è una delle tante parole chi certi dizionari riportano sotto –ds: forse era quella la grafia iniziale, ma, come Menarini giustamente insegna, oggi è chiaramente “s’c” o “c’c” (S’ciarìr, rendere chiaro; C’càrrer, parlare, ecc.).
Spécch (citato anche come Dspécch), staccato, idem come sopra, cioè: C’pécch!
Scramazól-Scrumazól, capitombolo, che io conosco come Scarmazól.
Scumplózz, scampolo, residuo, Scamplózz
Sfiópla, vescica, che moltissimo pronunciano Sfialópla.
Sgarmiè, spettinato, ma io, come già detto altrove, ho sempre udito Sgramgnè.
Sgnàur e Sgnér, signor (anche al femminile). E’ una vecchia diatriba tra chi vorrebbe mantenere l’antico Sgnér (almeno davanti al nome), mentre oggi tutti dicono Sgnàur in ogni caso. Probabilmente il Sgnèr corrisponde al romanesco “Sor”.
Sgumtè, gomitata, oggi Sgumdè, così come Gàmbd (gomito) è diventato Gàmd.
Silé, gilet, forse forma antica per l’attuale Gilé.
Simpàtich, simpatico che convive con Sempàtich (Mainoldi li cita entrambi)
Singiàtt, singulto, per tutti Zingiàtt, forse per assonanza con Zéngia, cinghia.
Slèpa, schiaffo, ma mi sembra troppo…milanese. Preferisco il bel Smataflàn!
Sluchèr, lussare, ma per tutti è Slughèr, infatti il raro “luogo” fa Lùgh.
Sméca e Sméco, citati per belletto, cosmetico. Io l’ho sempre udito solo al maschile Sméco, per indicare un “non-so-ché”, uno spunto atto a migliorare, a rifinire.
Sóvver, sughero è forse antica denominazione dell’ormai diffuso Sógher.
Spànt e Spàult, rafforzativi per “imbariègh” o “móii”, ma il secondo è più diffuso.
Sfùgh, sfogo, che però nessuno usa più a vantaggio di Sfógh.
S’pdèl e S’pducèr (ospedale e spidocchiare), oggi S’bdèl e S’bducèr (anche se i pidocchi non ci sono quasi più), tuttavia Mainoldi li cita entrambi.
Starlén-na e Sterlén-na, viene fatta una distinzione tra la prima (stellina) e la seconda (sterlina): può darsi che sia giusto, ma io nutro qualche dubbio.
Stiàvo e Stiévo, citati entrambi per il colloquiale “basta, nient’altro”, ma io ho sempre udito soltanto la seconda forma “ai ò dezìs acsé …e stièvo!”, simile a “…e ciao”.
Stranùd, sternuto, Starnùd, come accaduto anche in lingua tra spengere e spegnere.
Sufà, sofà, ma io ho sempre e soltanto udito Sofà, come in italiano.
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E’ molto probabile che tante parole abbiano avuto un’antica pronuncia e grafia, poi cambiata col tempo per appiattimento sull’italiano ed è un vecchio discorso già fatto mille volte: il dialetto cambia ed ognuno parla quello del suo tempo!
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APPENDICE a questo capitolo è la lista dei seguenti vocaboli (sempre nell’ambito della lettera “esse”) che non sono citati nel Mainoldi, ma che sono ancora in gran parte vivi ed io stesso li cito nel mio trattato “Voci caratteristiche Bolognesi (1992)”. C’è di tutto: termini obsoleti, campagnoli, tipici e contestati ed è molto probabile che non siano stati inseriti in questo dizionario, poiché recenti o gergali o anche volgari, ciò che probabilmente l’Autore ha volutamente evitato. Però molti sono ben vivi e quasi universalmente usati. Sarebbe impossibile elencarli tutti, come è difficile fare un dizionario che contenga tutte (ma proprio tutte!) le voci del bolognese, tuttavia ne ho scelta un’ottantina in rappresentanza degli altri.
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Sàbla, sciabola
Sagatèr, scompigliare
Saiàn e Saiandàn, sciattone
Sampagnàn, sbruffone, bisbocciane (Champagne)
Sbaitìr, morire
Sbémbel, cosa flaccida
Sburnisèr, cuocere sotto la cenere, andato in naftalina con…la cenere!
Sbuvazàn, grassone, ma anche poco abile al gioco (da “buàza”=sterco bovino)
Scagaién, piccola quantità o persona bassa (termine non molto raffinato)
Scaièr, non cogliere nel segno, mancare, termine portato anche nel nostro italiano
Scalzacàn, detto di persona non professionale, specie ad un medico
Scapadézz, viscido (famosa è la “pràisa scapadézza” di un portiere che subisce gol)
Scaravànt, acquazzone, forte colpo di vento, ma anche una moltitudine di cose.
Scarpazèr, gergale per ciabattare (a sént bèle scarpazèr, per chi sta arrivando…)
Scarpinèr, gergale per camminare (scarpén-na pr’ì tù vìsi, va’ per i fatti tuoi)
Scartén, chi è scartato (leva) o una carta di poco valore alla briscola.
Scavàzz, il retro-fianco ben modellato d’una donna, contrapposta ad una Spiulè!
Schèv’tlà! Togliti di torno.
Sclémm o il più raro Sclébbi, per definire una grande quantità
Scràvvel, tipo di saggina (al gàmb ed scràvvel, sono sottili e deboli)
Scufiót, bel termine che rende il rovesciare qualcosa in testa a qualcuno. Scappellotto o qualcosa di simile allo Scabóff, pure citato dal Mainoldi.
Scurzén, pernacchia
Scutmài, arcaico per indicare il soprannome.
S’dàssd o meglio Z’dàzzd, sveglio ed è corrispondente di “desto”.
Sfighè, sfortunato, ma anche poco abile o anche disgraziato nel fisico.
Sfitladàura, affettatrice, ormai in disuso a favore dell’orrenda Afetatrìz!
Sgaitón (ed), di soppiatto “l’é arivè ed sgaitón”
Sgambózz (in), ormai raro per definire chi è senza calze
Sganapèr-Sganasèr, mangiare avidamente (da cui forse la maschera Sganapén)
Sgaróffla, altro termine per la buccia di cipolle o agli, ma anche per la roba da poco
Sgasèr, dare gas, entrato in uso con le moto “l’à dè una fàta sgasè!”
Sgaitèr, districare i capelli (che erano sgramgnè!)
Sghérel, parola “di nicchia” che indica il fischio per le allodole
Sgnifulèr, piagnucolare, ormai sostituito da “gnulèr, fèr d’la gnóla”
Sgnófla, una qualsiasi cosa di grosse proporzioni (dal latino “offula”)
Sgrandigiàn, sbruffone
Sgrugnàn, uno dei tanti termini per indicare un pugno in faccia (int el gróggn)
Sinifìni (un), un sacco un mucchio, storpiando il latino “sine fine”= senza fine
Slànz (omografo di slànz=slancio), significa di qualità scadente (latino: lonzus?)
Slimèr, ciondolare, esitare, lesinare
Slimunèr, pomiciare, ma è preferibile il petronianissimo Cipulèr!
Slusnè, lampo, il Mainoldi cita Lusnè, ma è più comune con la “s” iniziale.
Smarlitèr, ha vari significati: il più usato è lo …“sfanalare” delle automobili
Smulàdgh, molliccio, flaccido
Smurfìr, gergale per mangiare, come Cubièr (dormire), Buschìr (defecare) e tante altre voci: Strìsi (pane), Stufilàusi (tagliatelle), Stafèl (formaggio), ecc.
Snibièr, piovigginare di nebbia (Cróder), ma anche sbrinare i vetri dell’auto
Snécch, persona difficile nei gusti a tavola, termine simile al citato Suféstich.
Sócc’mel, è il classico “scibboleth” bolognese: quando sparirà, spariremo noi!
Soquànt, alcuni (forse da “non so quanti”), che molti si ostinano a scrivere Socuant.
Sparghlén, l’aspersorio (al sparghlén dl’àqua sànta è colui che paga per tutti)
Spastè, è chi non è in forma (incù a sàn spastè)
Spatachè, spiattellato, ma anche una gran botta (una gràn spatachè par tèra)
Spianères, l’avverarsi (di un sogno), ma è termine antico
Spipaièr, fumare, fumacchiare detto in senso ironico
Sprasulè, sfilacciato, detto di una sottana (i prasù d’la stanèla)
Sp’titè, raro per indicare chi non ha appetito
Spulétt, così al plurale, indica i lacci delle scarpe (del singolare ho già detto)
Stimères, darsi delle arie (ignurànt e pò…stémmet!)
Stlón, specie di paletti, ma anche squadra di calciatori “macellai” (vedi: stlèr)
Strapì, termine arcaico per indicare una rovina
Strazabisàch, in fretta, grossolanamente (magnèr a strazabisàch)
Strìguel, poco usato per il grasso di budella di maiale
Sufitót-Sufitàn, altro termine per indicare un pugno in testa
Svarslèr, fare urli, gridare
Svàttla, botta, schiaffo, colpo
Svìdria, gelata specie nelle strade d’inverno. Poco usato
S’zarvlères, scervellarsi, a ulteriore dimostrazione che la “sc” da noi non esiste!

***

Come dice il titolo, mi sono riferito, in questa ricerca, alla sola lettera “esse” che costituisce quasi il 20% dei vocaboli, più o meno in ogni dizionario. Credo che il fatto sia dovuto a due motivi:
1) perché probabilmente accade lo stesso anche in italiano
2) perché in bolognese spesso prendono la “s” rafforzativa molte parole che esistono anche prive di “s” (vedi il caso di Lusnè e Slusnè).
Se avessi la pazienza di esaminare tutto il dizionario, credo che il risultato della divisione dei vocaboli nelle quattro categorie sarebbe lo stesso, soltanto che sarebbe almeno cinque volte superiore nel numero. Ma credo che non lo farò: questa ricerca sulle parole che iniziano per “esse” basta e avanza per rendere l’idea.
Quanto ai molti lemmi che mancano nel Mainoldi, il motivo l’ho detto all’inizio, e cioè che questo è un dizionario molto succinto. Altri dizionari li indicano tutti e molti altri che magari io non conosco ancora: uno su tutti è forse il più completo, e anche antico, cioè il Coronedi-Berti, il quale però ha il “difetto” di riportare una grafia ormai arcaica, oltre che non del tutto esatta, poiché superata da studi più recenti.
Voglio infine ricordare ciò che ho già ripetuto fino alla noia quasi in ogni capitolo che ho scritto: un idioma come il dialetto, che ha dizionari, ma che non ha regole né di grafia, né di pronuncia, è suscettibile di mille e mille variazioni in moltissime parole, poiché esse sono affidate alla fantasia di ogni parlante e di ogni scrivente. Perciò ogni “novità” che arriva in un contesto senza regole viene accolta senza che debba essere respinta (come accade per una lingua ufficiale) e senza sostituire la parola usata in precedenza. Viene semplicemente aggiunta ed accettata come variazione, non solo, ma nel dialetto convivono parole vecchie e superate con neologismi, parole di città e parole di campagna e pertanto sbaglia chi crede di avere in mano l’unica verità, semplicemente perché le verità sono tante!
Se poi un giorno qualcuno sarà incaricato di fare le regole (cosa che difficilmente potrà accadere!), allora si potrà fare una grande pulizia e lasciare in un dizionario solo i termini che sono ancora vivi oggi (e non ieri), a Bologna (e non in provincia).
Nel frattempo è meglio limitarsi, come ho cercato di fare io, ad elencare tutte quelle parole che secondo me, sono obsolete, campagnole, tipiche, discutibili o mancanti, consci però che il tutto resta…discutibile! E per fortuna che ho parlato solo delle parole che iniziano con la “esse”!
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Paolo Canè

RIME IN PILLOLE (pagina 25)

Dìn dàn dìn dón,
la campèna di frè Simón,
tótt i dé i la sunèven,
pàn e vén i guadagnèven,
guadagnèv’n un pèr ‘d capón
da purtèr ai sù padrón,
i sù padrón in i éren brìsa
i ér’n invézi ed dàpp a l’óss
a taièr ‘gli uràcc’ dal cócch,
cocco cocco malandrén,
dà la vólta al tó mulén,
dà la vólta al tó canèl
ch’ai ò trài pótti da maridèr
ónna cùs e pò la tàia,
ónna fà i caplén ed pàia,
ónna fà i caplén ed spén
da dunèr a Luvigén.
Luvigén l’é tànte b’lén,
l’à una rósa int al caplén,
l’à una rósa ch’l’é un bèl fiàur,
vàddel là ch’al fà l’amàur.


***

Dìn dón la tràmba l’é ràtta,
dìn dón fàla aiustèr
dìn dón ai vól di denèr
dìn dón vindì la gàta
dìn dón a l’ò vindó
dìn dón cus’èt ciapè?
dìn dón ai ò ciapè una rósa
dìn dón duv’èt la rósa?
dìn dón a l’ò dè a la spàusa
dìn dón duv’èt la spàusa?
dìn dón l’é in camaràtta
dìn dón ch’sa stèla a fèr?
dìn dón la si fà bèla
dìn dón dùvv’èla él b’làzz?
dìn dón l’ai à strà ‘l tràzz.


***

Suladén bendàtt,
fécca fóra trài bacàtt :
ónna d’ór, ónna d’arzànt,
l’ètra ch’fàga v’gnìr bàn tàmp.

(vedi versione più completa a pag. 35)
-
Paolo Canè

RIME IN PILLOLE (pagina 24)

Questa verrebbe da Zola Predosa:

A lèt a lèt a vóii andèr,
tótt i sànt a vóii ciamèr,
trì da có e trì da pì,
tótt i sànt i én mì fradì.
Al Sgnàur l’é al mì bàn pèder,
la Madóna la mì bóna mèder,
san Zvàn l’é al mi bàn parànt,
a spér d’andèr a lèt sicuramànt.
Sicuramànt ai andarò,
gnìnt’ed brótt am insugnarò,
se par g’gràzia an me livéss
l’anma mì a Dio a la làs
e a prégh l’Ànzel San Michél
ch’a la métta a salvaziàn,
sia bendàtta ‘st’uraziàn
e chi m’l’insgné.


***


Sàn-na un’àura a la Zartàusa;
sàn-na él dàu, a li ò sintó;
sàn-na él trài, i én arbató;
sàn-na él quàter a san Iàcom;
sàn-na él zéncv a san Iazént;
sàn-na él sì a san Matì;
sàn-na él sèt a san Iusèf;
sàn-na égli ót a san Iób;
sàn-na él nóv a san Pól;
sàn-na él dìs al Paradìs;
sàn-na égli óng’ a l’Uservànza
sàn-na él dàgg’ a la pórta Sànta.
Cuss’é mai tótti ‘st’égli àur?
Cuss’é mai tótt quànt ‘sti dé?
La Madóna l’à parturé,
parturé un bèl bambén
biànch e ràss e rizulén.
La Madóna l’ai dà la póppa
pò al le métt int una gróppia.
Con il latte di Maria
san Giuseppe in compagnia.

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(Certi passaggi non sono sempre molto chiari!)
-
Paolo Canè

SECÀND I GÓST (n. 178)

"Di' só, cùm'éla a lèt tó muiér?"
"Mó? Ai é ch'in c'càrr bàn e ai é ch'in c'càrr mèl…"

EDUCAZIÀN 2 (n. 177)

Int una famàiia d'ignurantón, ai vén a d'snèr l'ambràus d'la fióla e lì las archmànda che tótt i c'càrren pulìd, sànza volgaritè. Int al silànzi generèl, al và incósa bàn pr'una mez'àura, po', quànd à la mèder ai càsca un piàt par tèra, al pèder l'à un scàt ed narvàus incontrolàbil e al sèlta só:

"Dì' só, cus'èt, al màn ed mérda?"
E al nón: "Da ch'la vì ch'a se c'càrr ed mérda, chi é ch'as é spazè al cùl coi mì calztén?".

LA RÉMMA 1 (n. 176)

A scóla al màster al d'mànda ai sù ragazù al nómm ed trài zitè chi finéssen par "-ul". As lìva in pì Dante, ch'al dìs: "Liverpùl".
"Béne".
E pò Fausto: "Istanbùl".
"Bràvo".
E pò Pirén: "Busdalcùl".

Alàura al màster a gli dìs:
"An l'ò mai sintó ch'la zitè lé. Sèt dìrum par chès dùvv'l'é?"
"Própi ed prezìs, an al so brìsa, mó l'an à brìsa d'èser dimóndi luntèna, parché quànd mi pèder al dìs ch'al và a bùs dal cùl, al sta vì póch!".