martedì 14 ottobre 2008

AL RÀ D’LA FORÈSTA (n. 186)

Al leàn l'avèva ciamè a capéttol tótti el bìsti d'la forèsta e al scrivèva tótt i nómm in vàtta a un fóii:
"Cùmm'at ciàmet té?"
"Giràfa".
"Và bàn, mé, s'a vóii, at màgn! E té?"
"Mé a sàn la gazèla".
"Và bàn, mé, s'a vóii, at màgn! E tè?"

E al badèva a interoghèr tótti el bìsti, a scrìver i nómm in vàtta al fóii e a dìri che ló, s'al vlèva, a li magnèva tótti, fén ch'l'arivé a un simiàn:
"Cùmm'at ciàmet té?"
"Mé a sàn al gorìlla".
"Và bàn, mé, s'a vóii, at màgn!"
"E mé at càz int al cùl".
E ló svèlt: "...e me at scanzèl!"

QUESTIÀN ED STIL (n. 185)

Un baràn l'avèva asónt da póch un segretèri un pó gràzz. Un dé ai sàn-na al teléfon:
"Pronti?"
"Pronti, i él al baràn?"
"Nà, l'é al césso!" e al métt zà.

Alàura l'amìgh al gé al baràn:
"Al tó segretèri al m'à arspóst acsé e acsé: fén ch'a sàn mé, và bàn, mó pr'ì furastìr l'é méi che t'l'istruéssa!"
"T'è rasàn" e al ciamé al segretèri: "T'an è brìsa da dìr s'a sàn o nà al césso: t'è da dìr che mé a sàn in riuniàn!".

Un dé ai arìva un'ètra telefonè:
"I él al sgnàur baràn?!"
"Nà, l'é in riuniàn".
"Arèl ànch dimóndi?"
"An cràdd brìsa, parché l'é andè vì ch'al scurzèva bèle!".

ABITÙIDIN (n. 184)

"Di' só, ch'al ninén t'è cumprè al tén-net in cà con té?"
"Mé sè, parché?"
"Bàn mó cùmm fèt par la pózza?"
"Va là ch'al s'abituarà ànca ló!"

LA PÀMPA (n. 183)

Dù amigh atàis al fiómm:

- Vàddet quàlla? L'é una pàmpa idròfoba!
- Infàti, mé a cà ai ò una càgna idròvora!
- Và bàn: mé am sarò sbagliè, mó té t'i un èsen!

LA PIETRA DI BOLOGNA

Si può vivere un’intera vita a Bologna, senza conoscere la famosa “Pietra di Bologna”, altrimenti detta anche “L’enigma di Aelia Laelia Crispis”!
L’unica consolazione è la certezza che non sono il solo bolognese a non aver mai sentito parlare di ciò, anzi credo proprio che questa sia una cosa nota a pochissimi. Ma vediamo di che cosa si tratta. Dico subito che si tratta di una pietra, una lapide rettangolare con la seguente iscrizione, che qui sotto riporto nella versione originale latina con a lato la traduzione italiana. Il motivo della sua divisione in due parti lo chiarirò più avanti:



« D M

Aelia Laelia Crispis
Nec uir nec mulier nec androgyna
Nec puella nec iuuenis nec anus
Nec casta nec meretrix nec pudica
sed omnia sublata
Neque fame neque ferro neque ueneno
Sed omnibus
Nec coelo nec aquis nec terris
Sed ubique iacet
Lucius agatho priscius
Nec maritus nec amator nec necessarius
Neque moerens neque gaudens neque flens
Hanc nec molem nec pyramidem nec sepulchrum
Sed omnia
Scit et nescit cui posuerit
»



« D.M.

Aelia Laelia Crispis (Elia Lelia Crispi)
né uomo ne donna, né androgino
né bambina, né giovane, né vecchia
né casta, né meretrice, né pudica
ma tutto questo insieme.
Uccisa né dalla fame, né dal ferro, né dal veleno,
ma da tutte queste cose insieme.
Né in cielo, né nell'acqua, né in terra,
ma ovunque giace,
Lucio Agatho Priscius (Lucio Agatone Prisco)
né marito, né amante, né parente,
né triste, né lieto, né piangente,
questa / né mole, né piramide, né sepoltura,
ma tutto questo insieme
sa e non sa a chi è dedicato.
»



« Hoc est sepulchrum intus cadaver non habens
Hoc est cadaver sepulchrum extra non habens
Sed cadaver idem est et sepulchrum sibi »



« Questo è un sepolcro che non contiene alcuna salma
Questa è una salma non contenuta in alcun sepolcro
ma la salma e il sepolcro sono la stessa cosa »







Iscrizione che si trovava almeno fin dal XVI secolo su una parete del cosiddetto Complesso di Santa Maria di Casaralta (Bologna) che era di proprietà dei Volta, la famiglia di quel Camillo che fu l’ultimo Gran Maestro dei Frati Gaudenti.

Il Complesso era infatti stato eretto nel XIII secolo con la funzione di priorato dell’Ordine Cavalleresco di questi Frati.

Si tratterebbe in sostanza di una falsa iscrizione funeraria dedicata da un immaginario Lucius Agatho Priscius (in italiano: Lucio Agatone Prisco) ad una misteriosa Aelia Laelia Crispis (in italiano: Elia Lelia Crispi).

Le lettere iniziali D.M. hanno un significato sia cristiano (Domine Maximo, cioè rendiamo grazie a Dio), che pagano (Dis Manibus, cioè agli Dei Mani): a ciò si era indotti a pensare nel clima di riscoperta dei classici, tipico dell’Umanesimo.


Ne parlò per primo, in un documento del XVI secolo (1567), l’erudito belga Giovanni Torre (probabilmente Jaen Tours), che era ospite a Casaralta di Marcantonio Volta e che ne inviò il testo ad un collega inglese. Da allora furono parecchi gli ospiti dei Volta che citarono la curiosa iscrizione, che si trovava sul muro della chiesa, accanto alla villa. In quegli anni (1550) il Complesso diventò commenda e fu assegnato ad Achille Volta (allora Gran Maestro dei Gaudenti) il quale provvide ad ampliarlo e a dotarlo di particolari misteriosi, come un caminetto fatto in forma di enorme maschera, la cui bocca di tre metri costituiva il piano di fuoco, un dipinto riproducente un rinoceronte con la scritta in spagnolo “No vuelo sin vincer” (Non volo senza vincere), un bassorilievo di marmo con sotto la misteriosa scritta“Asotus XXX”e altre stravaganze. Dopo lo scioglimento dell’ordine (1589, col citato Gran Maestro Camillo Volta), il Complesso fu affidato da Papa Sisto V al Collegio di Montalto, anche se la famiglia Volta ebbe il privilegio di continuare ad usufruirne. Nel XVII il senatore Achille Volta, omonimo del suo avo, fece ricopiare il testo, divenuto illeggibile, su una nuova lapide in marmo rosso ed è questa che oggi viene detta “Pietra di Bologna”, quella attualmente conservata presso il lapidario del Castellaccio del Museo Civico Medievale che ha sede a palazzo Ghislardi-Fava, insieme ad un’altra piccola lapide che ricorda questa nuova trascrizione. Va detto inoltre che la lapide uscì indenne da un bombardamento aereo del 1943, che distrusse in parte il Complesso, e che fu restaurata nel 1988. C’è da dire infine che il rifacimento di Achille Volta manca di tre versi i quali invece comparivano nella versione originale e che io ho qui riportato a seguito dei 16 della prima parte del testo.

Quanto al significato ed alle interpretazioni di questa scritta…c’è da discutere!
Certo è uno dei misteri più noti (benché misconosciuto ai più) della Bologna esoterica: si tratta di una delle tante iscrizioni misteriose, immersa in un contesto architettonico pure misterioso che alimentano l’inesauribile fantasia degli uomini. Così d’acchito, tanto per restare a Bologna, mi viene in mente la lapide di San Procolo oppure, tanto per stare in Italia, il misterioso significato del castello federiciano di Castel del Monte, ma sono tanti e tanti gli oggetti e i luoghi che hanno scatenato superstizioni e fantasie, specie nei tempi passati, quando tutti erano disposti a credere a tutto!

E’ un testo che potrebbe essere stato concepito in un clima da cenacolo umanistico, in qualche modo vicino a tutto ciò che è mistero, allegoria ed esoterismo. Secondo lo studioso Richard White (ma anche secondo la studiosa Maria Luisa Bellelli), gli ultimi tre versi sarebbero la traduzione di un epigramma attribuito all’autore greco del VI sec. a.C. Agatia lo Scolastico, che fu poi latinizzato da Decimo Magno Ausonio ed infine riportato dal Poliziano. In ogni caso il “Mistero di Aelia Laelia Crispis” ha sempre suscitato interesse e curiosità, specie in ambito alchemico.

Lo stesso White ipotizzò la figura di Niobe (XVI sec.), lo scienziato bolognese Ulisse Aldrovandi, una delle amadriadi, le ninfe delle querce (XVI sec.) e Michelangelo Mari l’acqua piovana (XVI sec.). E’ poi inevitabile che a certe cose venga data anche troppa importanza: il letterato e gesuita torinese Emanuele Tesauro (XVII sec.), ebbe a dire che la lapide “sarebbe bastata da sola alla fama di Bologna” e lo storiografo Calindri (XIX sec.) analogamente affermò che “celebre ed insigne sarebbe stata Bologna se altro ancora non avesse avuto e contenuto in se stessa, che questa enigmatica lapide”. Direi…un poco esagerati! Comunque l’argomento fu ripreso anche da Carl Gustav Jung, da Gerard de Nerval, che citò Aelia Laelia nei suoi due racconti Pandora e Le Comte de St. Germain ed anche da Walter Scott.: tutti evidentemente attratti dal sottile fascino di questa lapide.

E’ la vana ricerca d’una soluzione improbabile che ha scatenato la fantasia d’illustri pensatori, eruditi, storici, intellettuali e soprattutto cultori d’esoterismo e di alchimia.


Numerose e controverse sono state, nel tempo, le ipotesi d’interpretazione, come del resto è accaduto per molti altri “misteri” come quello del celebre quadrato magico del Sator, iscrizione che si trova sul muro del duomo di Siena, leggibile in tutti i sensi, dal significato sibillino di “Il seminatore del campo tiene le ruote dell’opera”, che in fondo significa tutto e niente:

S A T O R

A R E P O

T E N E T

O P E R A

R O T A S


Ma oggi che siamo più disincantati, si è più propensi a credere che l’Aelia Laelia non sia altro che un gioco umanistico, uno scherzo antico, un raffinato gioco verbale, un virtuosismo fine a se stesso, un’invenzione erudita per fare impazzire i posteri. Per alcuni richiama alla memoria le statue del famoso Parco dei Mostri di Bomarzo (VT), per altri è invece un’importante verità esoterica, un principio d’arte ermetica, messa sotto forma di arcano: c’è perfino chi è arrivato ad affermare che, interpretando quel testo, si potrebbe addirittura arrivare a sintetizzare la famosa Pietra Filosofale, cioè al sospirato compimento della Grande Opera Alchemica, nel qual caso Aelia Laelia rappresenterebbe la cosiddetta Materia Prima, cioè lo stadio iniziale e ogni successione di termini, ciascuno che nega il precedente, sarebbe l’evoluzione attraverso la trasmutazione…ma qui entriamo nel difficile, perciò lascio perdere!


Ma se fosse vera questa ipotesi, si potrebbe dedurre che l’Ordine dei Frati Gaudenti costituisse una sorta di setta segreta, addetta ai misteri esoterici, come del resto fu ipotizzato per i Templari, ordine per molti versi affine, ma ho già detto che era abbastanza facile in passato credere possibile l’impossibile e magico l’incomprensibile! In ogni caso c’è da dire che l’esempio della Pietra di Bologna non è unico, infatti la stessa iscrizione appare anche nel Palazzo San Bonifico di Padova, nel castello dei Principi di Condé a Chantilly in Francia e in una lapide conservata nel museo di Beauvais, capitale dell’Oise francese.


Paolo Canè