martedì 30 dicembre 2008

LA SGNÀURA CATARÉN-NA AI RAGGI “X”

In un volumetto a parte ho raccolto circa 150 dei circa 400 sonetti che Alfredo Testoni ha composto per la sua “Sgnera Cattareina”, curandone una specie di “traduzione” dal dialetto scritto di 100 anni fa a quello mio di oggi. Non so se abbia fatto o meno un lavoro utile, ma, nel caso, sarà certamente meno inutile della traduzione in bolognese della Divina Commedia e del Vangelo secondo Matteo, poiché qualcuno sarà forse interessato a leggere e capire meglio l’opera di Testoni, ma nessun dantista si sognerebbe mai di leggere quella Divina Commedia tradotta da un noto gioielliere bolognese e nessun cattolico vorrà leggere il Vangelo tradotto dal Conte Pepoli a metà del XIX secolo, senza trovarlo blasfemo. Almeno così la penso io.
L’idea mi è venuta seguendo la mia convinzione, secondo la quale non esiste un dialetto che sia valido per sempre, ma ogni generazione parla (e scrive) il proprio.
Il dialetto parlato cambia, seppure lentamente, soprattutto nei vocaboli: esistono vocaboli che erano usati, ad esempio, dai nostri nonni, che vennero poi usati sempre meno dai nostri genitori e che noi ormai non usiamo più. E anche ai tempi dei nostri nonni, già non esistevano più certi vocaboli usati dai loro genitori e dai loro nonni!
Ma, se leggiamo le opere della letteratura italiana, vediamo che qualcosa di simile è accaduto (e sta accadendo) anche nella lingua, perciò non c’è nulla di cui meravigliarsi, tutt’al più può meravigliare che, se nella lingua nessuno si sogna di andare a ripescare vocaboli obsoleti (poffarbacco, ahi, lasso ecc.) nel dialetto c’è che si diverte a farlo! In ogni caso, il dialetto di Testoni (ad onta dell’imprecisa grafia), quanto a fonetica, è cambiato ben poco rispetto a quello di oggi, mentre è cambiato molto di più quanto a vocaboli.
Per quel che riguarda il dialetto scritto, che, come è noto, non ha le regole precise che ha invece l’italiano, ogni autore si è sempre arrangiato alla meglio, ma ha sempre tenuto conto di ciò che avevano fatto gli autori precedenti. La grafia è cambiata molto lentamente negli ultimi secoli, ma nel Novecento si è verificato un profondo cambiamento, grazie agli studi di Alberto Menarini, il quale ne ha messo a punto una che è la più semplice e insieme la più perfetta, poiché, avvalendosi delle regole dell’italiano, tende a riprodurre i suoni del dialetto esattamente come noi li pronunciamo, senza ricorrere ad accenti strani, invenzioni fantasiose o a false convenzioni, secondo le quali il dialetto si dovrebbe scrivere in un modo e… pronunciare in un altro! Il problema è che per alcuni Menarini non è mai esistito!
Fatte queste necessarie premesse, passiamo ora all’argomento di questo capitolo.
Dai circa 150 sonetti “tradotti” ho estrapolato altrettante parole o locuzioni della versione originale, allo scopo di esaminarle qui di seguito, benché per la maggior parte di esse abbia già scritto a lato un commento chiarificatore. Molti di questi termini sono già stati da me ricordati nelle “Voci caratteristiche bolognesi” (1993), ma qui tratterò solamente di quelli usati da Testoni (e Stecchetti)in questi 150 sonetti.
Consonanti doppie: sono moltissime in italiano e molte meno nel nostro dialetto che, come tutti quelli settentrionali, ne è molto avaro. Tuttavia Testoni ne usa molte, forse per influenza della lingua o forse perché a quei tempi si credeva che il dialetto fosse una…corruzione dell’italiano o del toscano! Perciò le parole come “sguillèr, ottomóbil, quattrén” ecc. io le scrivo tassativamente “sguilèr, otomóbil e quatrén” poiché è esattamente così che vengono (e che venivano) pronunciate qui a Bologna!
Gruppo –sc: anche se la nostra “s” è molto pesante, il suono –sc non esiste, perciò le parole “scéna, scémmia, scióper” ecc. io le scrivo “séna, sémmia, sióper” ecc.
Gruppo –cq: altro suono che non esiste, perciò scrivo “àqua e aquedótt” (scritte e pronunciate come in latino!), al posto degli improbabili “àcqua e acquedótt”.
Vocali “à” e “ò”: molti bolognesi, ancora oggi, dicono “bòn” per buono, “sòn” per la voce del verbo essere “sono” (e anche per “suono”), “tròn” per “tuono” e così è per mille altre parole, ma molti altri bolognesi, specialmente di città” dicono “bàn”, “sàn” e “tràn”. Ebbene, non essendoci una regola fissa ed essendo io uno di questi ultimi, così scriverò sempre, poiché è esattamente così che io pronuncio!
Accenti e apostrofi: argomenti di cui ho già parlato altrove fino alla noia! Qui mi limiterò a dire che, rispetto a Menarini, io ne faccio maggior uso, all’unico scopo di rendere più facile la lettura a prima vista.
Passo ora ad esaminare i vocaboli e le locuzioni, dividendole prima in gruppi.
Mutazioni rilevanti: le mutazioni vere e proprie in un secolo sono state rarissime, anzi ho trovato solo queste due: “chèsa” (casa), che però conviveva con l’attuale “cà”, e la prima persona del passato remoto di alcuni verbi, come “andó” e “purtó”, che pure convivevano con gli attuali “andé” e “purté”. Sono convinto che queste forme, già antiquate allora, Testoni le abbia sporadicamente usate per motivi di rima.
Vocaboli ed espressioni scomparsi o in via di sparizione: vediamone alcuni.
- “ a téns andèr” oppure “a t’gné andèr” (tenni andare) col significato di ”ho dovuto andare”, ciò che oggi si rende con “ai ò d’vó”, “am é tuchè”, ecc.
- “al vóls” (egli volle) che ho sentito pronunciare anche “al vùs”, come anche al “tóls”- “al tùs”(egli prese), oggi sostituiti universalmente con “v’lé” e “tulé”.
- “armàur” (rumore) oggi in disuso, sostituito dai vari “gatèra”,”casén” e altre parole, tra le quali il brutto “rumàur”, per influenza dell’italiano.
- “arvindrìs” (rivenditrice) sostituita da varie parole, ma anche se qualcuno la volesse usare, difficilmente sarebbe capito dall’interlocutore!
- “avintàur” (cliente) e qui è ancora peggio, poiché tutti capirebbero“avventore”! Oggi è “cliànt” o “cliànta”.
- “cmèr” (ostetrica), che oggi sarebbe inteso unicamente come “comare”, era il modo antico per definire la “levatrìz” (ostetrica).
- “ una ragàza cùmm và” (come si deve), oggi diciamo “una ragàza in gàmba”, “una brèva ragàza”, ecc.
- “di subiù!” è un’esclamazione usata da Testoni e da Stecchetti. Il “subiól” è un fischietto e forse non c’entra nulla, comunque è espressione ormai disusata.
- “duzén-na” (pensione) che si diceva anche in italiano “essere a dozzina”, ma oggi si usa esclusivamente “a pensiàn”.
- “fèr la sémmia” (scimmiottare, imitare): ho sempre sentito dire “simiutèr”.
- “furànt-infurintè” (innamorato, appassionato) espressione che è stata sostituita da tante altre più o meno ironiche.
- “gagliót” (galeotto, birichino), nonostante le galere siano rimaste, quest’epiteto è caduto in disuso.
- “gnént-ignént” (niente) oggi tutti dicono unicamente “gnìnta”, ma credo che, se non espressione antica, fosse una variazioni ai fini della rima.
- “léspa” (svelta) parola usata da Stecchetti che però non risulta in nessun dizionario. Io ho “tradotto “ con “vésspa” (vispa) che è forse la stessa cosa.
- “m’nén-na” (gattina) oggi non si dice più e pochi sanno cosa significhi.
- “mólt” (molto) rarissimo per il più usato “dimóndi”, che però io ho fatto in tempo ad udire da qualche anziano. Curioso sarebbe sapere da dove arriva davvero questo strano “dimóndi”, anche se qualche supposizione è stata fatta!
- “par ràbia ed fàm” (per forza) locuzione che io non ho mai udito.
- “pinén/pinén-na” (bambino-a) termini usati da qualche anziano, ma non più da quelli della mia generazione.
- “póst ché…” (dato che…) oggi si usa “dato ché” o “sicómm ché”.
- purassè o purasè (assai, abbastanza) un avverbio che doveva esistere anche in italiano, ma che tuttavia lo Zingarelli non cita. Assolutamente in disuso.
- salè (zitella) come salèr (forse: vegliare) sono termini ormai incomprensibili.
Il significato di oggi è unicamente “salare” come in italiano.
- scufiarén-na, termine antico per l’attuale “mudéssta” (modista-cappellaia).
- sgabanè, termine arcaico che significa (forse) “sgobbata”, “gran lavorata” oppure…il contrario: “fèr gabanèla”, riposarsi, gozzovigliare. Incerto.
- spiulè (piallata, donna non prosperosa)altro termine che oggi suona misterioso!
- spurchézzi, idem come sopra, riferito alle false amiche della Gaetana, forse col significato di “sporcaccione”, “pettegole”, ”infide”.
- s’pziarì, termine abbandonato da quasi tutti a favore del moderno “farmazì”.
- striflèr (schiacciare di folla) è un bel termine, ormai purtroppo in disuso, che rende perfettamente il disagio di venire schiacciati e quasi travolti dalla folla.
- tacuvén (portamonete) termine da cui deriva il più recente “catuén”, pure esso ormai poco usato. È la stessa etimologia dell’italiano “taccuino”.
- tirasó (persona che prende in giro) come tirèr só (prendere in giro), lo diceva mia nonna, ma già mio padre non lo usa più.
- Fiù de càn come anche ràza de càn (figlio o razza di cani) sono offese non così tipiche del dialetto bolognese, quanto dei dialetti veneti. Interessante è l’uso di “de” al posto di “ed”, probabilmente per motivi eufonici, una caratteristica che sopravvive nell’altra, peraltro vivissima, offesa “tèsta de càz”!

Parole italiane inserite nel dialetto, ve ne sono diverse e qui ne troviamo tre.:
- “giretto” per significare, forse, una “donnina leggera”, ma è da verificare
- “papetta” (usata da Stecchetti) che dovrebbe significare “risorsa“, da verificare
- “per la quale” (come si deve) che è la sola espressione ancora sporadicamente in uso. “Non sono mica tanto per la quale” si dice speso in tono minaccioso.

Termini in avanzata obsolescenza, che però vengono ancora usati spesso in senso ironico e scherzoso. Chi li usa in modo “serio” rischia di essere stucchevole, perciò è molto meglio usare termini più recenti e consoni alla nostra generazione!
- braghìra (ficcanaso, pettegola) oggi “fecanès”
- carampèna (di salute malferma) oggi “càr ràtt”
- ciupàtta (molti, parecchi) oggi “dimóndi”
- an cràdder gnànch al pancót (non credere in nulla)
- faquaióni (sornione) oggi “saràf”
- farabulàn (contafrottole) oggi “busèder”, “balésta”, “giazaról” ecc.
- imbarluchèr (raggirare) oggi “imbruièr”
- incucalé (inscemito) oggi “insmé”
- mustàz (viso) oggi “fàza”, “ghéggna”.
- niculót (bellimbusto) oggi “cartulén-na”, “fàt sugèt”, ecc.
- quàll ch’pèga l’óli (chi paga l’olio) oggi “ padràn”, “padrunàz”, “padlàn” ecc.
- san Luig’ spigazè (persona macilenta come il santino di Luigi Gonzaga).
- scarpazèr (ciabattare) oggi “zavatlèr”.
- simitón (complimenti) oggi “cumplimént”
- sprucaién (bella ragazza, bambina) oggi “bèla ragazóla”…se non di peggio!
- srisén (sorriso), assolutamente stucchevole, oggi “surisén”.
- stièvo! (basta!) oggi “bóna lé”. Probabilmente la parola significava “ciao”, nel senso di “adìo fìgh!”, del resto anche “ciao” deriva da “schiavo (vostro)”.
- tusàtt (tosetto, ragazzino) assolutamente fuori moda. Meglio “cìnno”.
- zanfanèl (ironicamente: cervello) idem come sopra. Oggi “zarvèl”, “zócca”.

L’ultima categoria è quella dei termini ancora usati, ma strani agli orecchi dei giovani bolognesi, poiché lontani dalla lingua italiana a cui sono abituati. Qua e là metto tra parentesi il termine in italo-bolognese, quel nostro particolare gergo usato per necessità dai meno acculturati e per gioco dagli altri.
- (a)catèr (trovare) ormai per tutti “truvèr” (al Sud “accattare” = comprare).
- a se sguàza (si gode)
- a spàs (disoccupato) oggi “disocupè”
- (cumprè) a ùs (acquistato usato) oggi “usè”
- agàccia-agucén (ago-spillo) dall’antico italiano “agocchia”, ma lo spillo è ormai per tutti “spilén”
- am n’ò par mèl (me ne ho a male)
- amìga (amica), ma è anche il termine che designa “l’amante”
- arabé (in collera) anche se letteralmente è “arrabbiato”
- arpiatèr che, insieme ad ardupièr, significa “nascondere” (alcuni usano anche il bruttissimo “nascànder”). Etimologicamente “rendersi piatto, abbassarsi”
- bacèl-bacì (bacello-bacelli) è una cosa fatta male
- banchè (bancata) è un sacco di botte e deriva dal fatto che le punizioni di una volta si comminavano con il reo steso su un banco
- biràn (birone) è il tappo o coperchio della botte ed anche dei W.C. primitivi.
- blàch (straccio, cencio) che è parola di origine longobarda (blahha)
- bravèr (sgridare) con il significato che aveva l’antico italiano “bravare”
- (fèr un) brótt vàdder, uno spettacolo spiacevole (un brutto vedere)
- bufìsia (comicità, buffoneria):il suffisso –ìsia è simile all’italiano –eria oppure
–ezza, così come per stufìsia (stanchezza), gricìsia (avarizia), ecc.
- buiarì (boiata), ma riferito a misfatti o volgarità. Per “boiata” esiste anche “buièta” riferito o ad un brutto spettacolo o all’esclamazione “Che peccato!”.
- bùs d’la ciavadùra è l’unico modo per definire la “toppa” della serratura.
- buvinèl (buvinello) che è l’imbuto e, di recente, anche “persona fortunata”
- che stràza ed…(che razza di) soprattutto in senso di meraviglia.
- c’pichèr (staccare) da “dispiccare”, poi “dspichèr” e infine “c’pichèr”
- culàt sono le natiche, ma esiste anche il volgare ”stiàp” (chiappe)!
- Cumpàgn(a) è termine un po’ antiquato, ma molto petroniano di dire “come”
- da fèrsen? (da farsene?) significa “cosa te ne fai, cosa me ne faccio di questo?”
- da par mé e da par té, significa (io o tu) “da solo” (lo faccio da per mè!)
- (ón) da quatrén è una persona ricca
- dabàn significa “davvero” (bàn mó dabàn?)
- d’arpiàt (vedi arpiatèr) significa “di nascosto”
- dèr (a) mànt, vuol dire “dare retta”
- dì só o dì bàn só (di ben su) vale un “ascolta!” oppure “ehi, tu!”
- diavléri (diavolerio) è “confusione”, “rumore”, “gazzarra”, “pers. indiavolata”
- dùr (duro) significa “completamente” nei casi di “imbariègh”, “màt”, ecc.
- ed scapè (di scappata) cioè “in tutta fretta” (una volta anche ed fràzza)
- ed tótti el fàta, di ogni specie, di tutti i colori.
- èrca ed siànza (arca di scienza) ironico per persona colta (o che si crede tale)
- fèr dal féss, fare confusione, fare tante chiacchiere
- fóra vì, di fuori. Ón ed fóra vì è un “forestiero”
- fótta (collera), ma anche “schiribizzo”: s’am vén la fótta…
- gàta, molta confusione, molto rumore, presumibilmente parente di gatèra.
- g’nèr (desinare) è il pranzo: desinare, dsnèr e poi g’nèr
- gróggn (grugno) muso, boccaccia detto anche di chi tiene il “broncio”
- in drétt (in dritto) oggi in buona misura sostituito da “ed frànt”, “in fàza”
- in me cócchen (non mi cuccano) non mi fregano, non ci casco
- intaièrsen (intagliarsi) rendersi conto, mangiare la foglia
- lulé (lui lì) “egli”, ma in senso poco gentile
- macàgg’ (maccheggio) cioè “marchingegno”, ma anche “sotterfugio”
- maridè significa maritata, sposata, ma…si dice anche di un uomo!
- móii ed sudàur (madido) e móii spàult (molto bagnato)
- nézz (nizzo) è il “livido”
- nóv nuvànt o nóva nuvànta, significa “nuovo o nuova di zecca”
- óc’ pulén (occhio pollino) è una specie di callo ai piedi
- otomóbil (automobile) ma ormai tutti usano “màchina”
- parpàia (parpaglia) è la farfalla (farfàla), ma più ancora la falena
- p’gnatén, parola usato da Stecchetti in “fèr i p’gnatén par i ambrùs” un’usanza (a me ignota) che oggi è scomparsa.
- pulìd significa “bene” (fèr pulìd= fare bene), una volta scritto anche “pulìt”.
- pulismàn (pulismano) tradizionalmente “vigile”. Oggi c’è il brutto “véggil”.
- quèl, significa “qualcosa”, dal basso latino “covelle”, da cui “cuvlén”.
- rèna (rana) vuol dire “miseria” forse per… il color verde!
- sandràn (sandrone) persona goffa e corpulenta (dalla maschera modenese?)
- sbatrì ‘d màn è il batti mani, l’applauso
- sbózz (sbuzzo) è il “talento” nel fare qualcosa, l‘estro
- sburzighlén è “pizzicore”, “brivido”
- scambiàtt (scambietto) “movimento veloce”, ma anche “trucco”
- sèghma (sagoma) è detto di persona buffa
- sfìlza e sfilarè è una lunga fila di persone, di cose o di parole
- sgablànt (sgabellante) è il testimone di nozze, connesso con lo sgabello.
- sgavagnères (sgavagnarsi) arrangiarsi, sbrogliare la matassa
- sguilèr (sguillare) “scivolare”
- sinfunì come manfrén-na, da una composizione classica e da un ballo popolare indicano la “tiritera”, la solita musica (noiosa)
- smataflàn (smataflone) è il “ceffone”
- smórt, “pallido”, ma esiste anche in italiano (smorto) con lo stesso significato
- sòia bàn mé! (so ben io!) vale “cosa vuoi che ne sappia?”
- (mègher) st’lè come anche (gràs) técc’ sono due aggettivi (uno triste e l’altro allegro!) per definire persone eccessivamente magre o grasse.
- strichèr (striccare) è voce canonica per “stringere”, ma c’è chi dice strénzer.
- strulghèr (strolgare) “ideare”, “inventarsi” da strólga = strega, astrologa
- stupèr (stopare) significa “occludere”, “turare”
- svèri (svario) significa “differenza”, ma è usato anche difarànza.
- sverzùra, dal rinverdire delle piante, indica “eccitazione”, “ansiosa attesa”
- tamóggn (tamuggno) significa “forte, duro, sostanzioso, difficile, ecc.”
- tarzanèl è il “terzo vino” cioè quello più leggero e meno pregiato
- t’gnìr d’acàt, significa “conservare”, “non perdere”
- tirèr ( i sóld), in questo caso “tirare” significa “incassare”
- tubèna (tubana) baccano, forse riferito al tubare dei piccioni.
- ucarót (ocarotto) persona poco sveglia (vedere qui sotto le finali in –ót)
- vanzèr è ormai il solo verbo per “rimanere” una volta tramontato “armagnèr”
- zuchè (zucata) è la “fregatura” anche matrimoniale: l’à ciapè una fàta zuchè!
- zuntèr (giuntare) è “aggiungere” anche se si sente il “mostro” azónzer!infine le varie finali in “ót”, tipicamente bolognesi, che indicano una breve azione per diverse cose: stricót (stretta), prilót (girata), pistót (pestone), tirót (tiratina), sgranfgnót (graffio), p’zigót (pizzico), tramlót (fremito), ma anche altri come saguaiót (risciacquatina), buiiót (bollita), ecc. tutte parole che vengono spesso dette anche in italo-bolognese (stricotto, pestotto, ecc.) e che hanno il relativo diminutivo (p’zigutén, buiiutén, sgranfgnutén, ecc.).
-
Paolo Canè

L’AMÌGH (n. 231)

Un rapresentànt al turné a cà à l'impruvìs e al truvé só muiér a lèt con un èter. Invézi d'incazères al taché a zighèr:
"Dàpp a tant'àn ed matrimóni, dàpp che ai ò lavurè par té, dàpp ch'ai ò sàmper esaudé i tù desidéri, guèrda lé con ché brótt vèc' t'i andè a lèt!"

La dóna l'aprufité ed ch'al mumànt ed deblàzza par pasèr à l'atàch:
"O insàmma, finéssla! Cràddet che col tó stipàndi nuètr'à p'rénn sustgnìr la vétta ch'a fàn? Chi à paghé el ràt dal mùtuo?"
"Té col tó lavurìr, t'am è détt…"
"Mó ché, luqué ai à paghè! E chi ha paghé la lavatrìz e la mi màchina?"
"Sàmper té col tó lavurìr…."
"Nà, l'é sàmper stè luqué!" e la sgnéva l'umarén che l'éra vanzè fàirum int al lèt tótt nùd.

Alàura al maré al le guèrda e al dìs a só muiér: "Di' só, Marìsa, crùvel bàn ch'an ciàpa fràdd!"

VIÀZ À NUIÒRK (n. 230)

Un maicàtt al dezìd ed fèr un viàz in America e al dìs con un só amìgh:
"Però ai ò un probléma: an so b'sa c'càrrer l'inglàis!"
"Bàn mó ch'sa dìt? Mi fradèl ai é stè l'àn pasè e l'à détt che in America i àn una làngua cumpàgn al bulgnàis, bàsta però c'càrrer adèsi".

Tótt cuntànt par la nutézzia, al maicàtt al partéss e l'arìva à l'areopórt ed Nuiòrk. Al ciàma un tàxi e al dìs:
"M-è à v-ré-vv and-èr à Br-òd-vài". E al taxésta: "S-ób-bit, ch'- al vé-ggn-a pùr-só" e vì ch'i vàn.

Par strè i tàchen a c'càrrer d'un mócc' ed qui, d'un albérgh, d'un ristorànt, d'ì negózi, infén che al maicàtt al dìs:
"Sél? Mé a v-én da-l'Am-zu-lè-ra!" e al taxésta: "Cum-bi-na-ziàn, mé à s-àn ed Sàn-Là-zer".
Alaùra al sèlta só dezìs al maicàtt: "Bàn mó alàura, s'à sàn tótt dù ed Bulàggna, smitàggn-la bàn ed c'càrrer l'inglàis!

AL SALVATÀG’ (n. 229)

"Él ló ch'l'à salvè al mi fangén?"
"Sé".
"Él própi ló ch'as è cazè int al fiómm e al l'à purtè só?"
"Sé, a sàn mé".
"Alàura, pósia savàir dùvv'l'é andè a finìr al só caplén?"

AL CURAGIÀUS (n. 228)

Ai é ón ch'al và int un bar e al dìs: "Barésta, un cafà e sànza paghèr, parché mé an ò póra d'inción!".
Al padràn ch'al sént incósa, l'éra un umàz d'un méter e nuvànta: ai vén atàis e al dìs: "Ànca mé an ò póra d'inción!"
E ló: "Barésta, un cafà ànch par ch'al sgnàuri qué!".

RIME IN PILLOLE (pagina 49)

E anche quest’altro che è un "Discorso tra due vecchietti del Ricovero", preso da “il Marchese Colombi” 10/02/1895:

“Cùmm vèla stamatén-na? “Cùmm Dio vól!”
“A sì lé con al gróggn, tótt zétt zétt!”
“Io penso ch’a sàn qué strà di puvrétt
e piango cómm s’a fóss un ragazól.

Piuttosto che finire i dì nel duol
io, che fui uom di lettere, ch’l’à scrétt
dei drammi, dei romanzi, di sunétt,
al n’éra méii ch’a féss al strazaról?”

“L’é inóttil che vó av fèvi di rimpróver:
avèvi da pensèr in zoventó
che i letterè, purtróp, vàn al ricóver.

Lasè ch’a bràntla mé, chèro al mì òmen,
ch’ai ò fàt una fótta pìz che vó
par finìr qué!” “Che cosa?” “Al galantòmen!”


L’indovinello del treppiede (graticola?), del pollo e…del gatto:

A tóls trì pì,
ai mité só dù pì,
arivé quàter pì,
al purté vì dù pì
e a vanzé con trì pì!

Canto popolare di Monteveglio:

Il cavalier Milano voleva tór muiér,
voleva tór l’inglàisa, figlia d’un cavalier.
La sera la domanda e al dè al la v’lé spusèr:
appena lei fu sposa, vì al la vóls purtèr.
Fecero trenta miglia, nessun dei due fiatò,
ne fecero altre trenta, l’inglesa sospirò.
“Cosa sospiri, inglesa, cosa sospiri ohibò?”
“Sospiro padre e madre, mai più li rivedrò!”
“Rimira quel palazzo, sappilo ben mirar,
a trentasei ragazze la tèsta ai ò taiè!
“Imprestami la tua spada” “Che cosa ne vuoi far?”
“Voglio tagliar la frasca da dèr al mì cavàl
Appena avuto spada, nel cuor gliela piantò
e prese il suo cavallo e a casa ritornò.
-
Paolo Canè

RIME IN PILLOLE (pagina 48)

Una filastrocca di Gregorio Casali:

Bulàggna bèla ai pì d’l’Apenén
piantè e fàta a fàurma d’una bèrca,
bèla ed fàbrich, famàusa ed zitadén
ch’par vàddarla l’indiàn fén al mèr vèrca;
e chi a pì, chi a cavàl ‘s métt in camén
ed maravàiia ognón él zéii inèrca,
al và só al mànt, l’adócia al piàn e al dìs:
“St’ bèl pàais l’é un terèster Paradìs!”


Quando si parlava di cambiare nome alla statua di San Petronio, il Santo si lamentava così col vicino Gigante (temendo di diventare un certo Sacchetti, allora assessore) :

A mé, purtróp, tótt zàirch’n ed fèr dal mèl
e v’lìv savàir cùmm andarò a finìr?
Ch’im cavaràn la méttria e ànch al pivièl,
im mitaràn int la fàza dàu basàtt
e, pr’unurèr chi fé tànt lavurìr,
i v’ràn ch’a d’vànta l’asesàur Sacàtt!


(A. Testoni, “Bologna che scompare” 1850-1880)

Questo sonetto, a firma “l’umarén dal pàvver” non c’entrerebbe nulla con questa raccolta che NON è di poesie, ma è tanto bello (e tanto giusto!) che lo riporto:

Sgnàur Giólli, mó al n’à póra ed stèr acsé
con sàul la cumpagnì d’un gàt suriàn,
ch’an i pól dèr sicùr sodisfaziàn
cómm ‘na sarvóta ch’téggna un póch pulé

e ai fàga un piàt ed m’nèstra pr’al mezdé?
‘Na ragazóta ch’s pósa tór a màn,
ch’sèva lavèr t’vaiù e sugamàn,
dèr quàich puntén dùvv’i é quèl ed scusé?

E pò as sà: una malatì o ànch un bisàggn
ch’al pósa capitèr, ed dé o ed nót,
l’é sóbbit lé d’aiùt e ‘d bàn sustàggn!

Ch’am dàga mànt a mé e pò la nót
(che l’ómen, tótt i sàn, ch’n’é brìsa ed làggn!)
avàir avsén un cùl…l’é un tér’n al lót
-
Paolo Canè

RIME IN PILLOLE (pagina 47)

…quando a Bologna c’erano ancora gli ulivi:

Ón, dù e trì,
al balàn an và pió vì,
al và vì ‘stà premavàira
quànd i tìren só la tàila.
Tàila da l’óli
d’andèr in purgatóri,
tàila da zìl
d’andèr in paradìs.


Questo è il finale della favola della matrigna:

Mi madràggna, ràggna, ràggna
l’am mandé a fèr d’la làggna
làggna, làggna a cuié
la caldèra la buié,
mi surlén-na blén-na, blén-na
l’am purté una panirén-na,
mì papà luvàn, luvàn
am magné tótt int un b’càn.


Questa viene da Pianaccio:

Din dàn dindèla
A s’é maridè Brighèla
E l’à tólt una vecchietta
Era tutta rampinosa
E doman farem la sposa.

(dal “Lunèri bulgnàis”, 1990)

Le ragazze bolognesi innamorate d’un tempo, interrogavano così la margherita:

Al m’invól e s’an m’in vól,
al m’àma e s’al m’à int al cór,
póch, purassè, acsé acsé, am minciàn-na.


…e la speranza o la delusione stavano nella frase dell’ultimo petalo!

Ancora una ninna-nanna:

Din, dàn, dón
di pinén ai n’avàn ón:
s’ai n’avéssen dù o trì
o Dio Sgnàur che sinfunì!

(da "I calendari d'Italia", 1996)
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Paolo Canè