venerdì 23 luglio 2010

SIMILITUDINI

La similitudine è una figura retorica che consiste nel “paragonare una cosa ad un’altra” e nel XIII secolo fu proprio Guidotto da Bologna che così la definì. Si usa, ritengo io, per rafforzare un concetto e, soprattutto nei dialetti, per sottolineare l’aspetto comico delle cose. I dialetti sono “bambini” che amano scherzare e che a volte vogliono apparire simpatici per forza, mentre la lingua è un “adulto” che scherza di meno e che a volte tende ad essere serioso e pedante! Ma anche col dialetto bisogna fare attenzione: la similitudine, la battuta e lo scherzo debbono essere misurati per essere graditi e simpatici, chi invece ne abusa, finisce per ottenere il risultato contrario e ciò diventa antipatico ed insopportabile. Lo diciamo anche ai bambini (quelli veri) quando esagerano: “Il gioco è bello finché è corto”.
Qui ho raccolto una trentina di similitudini che ho diviso in due gruppi: quelle che, uguali o molto simili, troviamo anche in lingua e quelle che, per quanto mi risulta, abbiamo solo nel nostro dialetto (e forse in altri). Come ho detto, si può notare come quelli esclusivi del dialetto siano più simpatici degli altri. Altra caratteristica è quella che, almeno la metà dei seguenti esempi, usano come paragone un animale, mentre l’altra metà si riferisce a cose. Infine, ricordo che in bolognese il “come” viene detto in molti modi: cómm, cómme, cùm, cùmm, ch’mé (che io scrivo con l’acca per indurre il lettore a prima vista alla pronuncia dura della “c”), cumpàgn e cumpàgna!

Bèl ch’mé un ànzel che abbiamo anche in italiano “bello come un angelo”
Sudèr cumpàgn a una bìstia, sudare come una bestia, anche se in dialetto “bìstia” è il bovino per antonomasia e quello lavorava molto e perciò sudava!
Infiè (gànfi) cómme un bót o (una butaràza), gonfio come un rospo.
Sfighè ch’mé un càn in cìsa e i cani in chiesa, si sa, hanno poca fortuna!
Brótt ch’mé al dièvel (un dèbit, la fàm), il diavolo è brutto dappertutto, ma forse le similitudini con il debito e la fame sono più tipicamente dialettali.
Córrer cumpàgn a una lìvra, e la lepre è l’animale veloce per antonomasia.
Antepàtich ch’mé una mérda, paragone non fine, ma credo si dica anche in lingua!
Testèrd cómm un móll e il mulo lo è, anche se non è l’unico animale ad esserlo.
Lavurèr cumpàgn a un nàigher, si dice anche in italiano, ma non perché i negri (oh, pardon, i “di colore”!) lavorino più degli altri, quanto perché un tempo essi erano schiavi e perciò erano costretti a lavorare.
Spórch cómme un ninén, ed è buffo sottolineare come il maiale si chiami “ninén” a Bologna, “busgàtt” a Ferrara e “baghén” a Ravenna: mi chiedo come lo chiameranno ad Argenta che si trova nel punto dove queste tre province si toccano, forse “maièl”!
Mègher ch’mé un óss e non c’è nulla di più magro di un uscio!
Sàn cumpàgn a un pàss, sempre che i pesci siano veramente sani.
Móii cómme un pipién: credo che anche in lingua si dica “bagnato come un pulcino”
Càrgh (inaré) cumpàgn a un sumàr: “carico come un somaro” si dice anche in italiano mentre credo che “eccitato (inaré) come un somaro” si dica solo in dialetto.
Strazè (f’tè) cumpàgn a un zénghen, trasandato (vestito) come uno zingaro.

Ed ora altrettanti similitudini usate,a quanto mi risulta, solo in dialetto:

Ignurànt ch’mé un càpp, e il coppo deve essere ben poco intelligente, se se ne sta esposto sul tetto al cocente sole d’estate e alle intemperie d’inverno!
Inamurè cumpàgn a un gàt ràss, pare che i gatti rossi s’innamorino più degli altri!
Mérd ch’mé la lòch, è un noto ed antico detto, nel quale “mérd” è sinonimo di “spórch” e per il resto ho sempre creduto che l’allocco (l’alòch) fosse un uccello più sporco degli altri finché non ho saputo che “la lòch” è la (sporca) pula delle biade!
Catìv ch’mé al lóii, anche qui, da piccolo, credevo che si trattasse del mese di luglio (lóii), ma poi ho capito che si tratta del loglio, l’erba cattiva che si trova nel grano!
Magnèr ch’mé un lùder, questo “lùder” è l’ingordo, ma la parola deriva dal latino l’utreum = otre (ed anche il poco usato ludro), cioè riempirsi come un otre!
Lóngh (o lànt) cómme la mèsna (ed sàtta), si dice a chi è lento e comunque “lungo” a prepararsi, come la macina di sotto dei mulini che era più grossa e lenta dell’altra.
Indrì ch’mé i m’lón, suppongo che il detto si riferisca alla maturazione dei meloni che, a quanto pare, è lenta. Si dice a chi è ancora indietro, non è ancora pronto.
Smórt cumpàgn a una pèza lavè. In lingua si dice qualcosa di simile a “pallido come un cencio”; qui abbiamo “smórt” che è anche italiano (smorto), ma che è la sola parola bolognese per “pallido” .Quanto alla “pezza lavata” …si suppone sia bianca!
Imbariègh (in bulàtta) ch’mé un pózzel (un zvàtt). Si tratta di due improbabili maschi della puzzola e della civetta che vengono usati unicamente in questa frase, pure doppia: gli stessi animali sono paragonati a chi è molto ubriaco ed anche a chi è completamente al verde: in bolletta, in questo caso la bolletta del Monte di Pietà e, in precedenza, il bollettino con l’elenco dei falliti (A. Menarini).
Svélt cumpàgn a una sanguàttla (un pàss). Evidentemente la sanguisuga è svelta (ma io non ne so nulla), mentre il pesce, che abbiamo già visto nella similitudine con “sano”, è sicuramente svelto e guizzante.
Màt cumpàgn a un s’dàz! Questa è una delle più belle del nostro dialetto, che ci portiamo anche in italiano “matto come un setaccio”. Perché il setaccio? Perché esso fa passare il meglio (la farina) e trattiene il peggio (la crusca). Sarà matto o no?
Segrét ch’mé al tràn. Bella anche questa, benché sia ironica: cosa ci può essere di meno segreto di un tuono, che tutti possono udire? Si dice infatti ad una persona che non sa tenere i segreti!
Sàurd ch’mé un zócch. Un altro maschile strano (di zócca = zucca) che è usato solo in questo caso, quando si vuole definire chi è completamente sordo.
Pìz che un zóp (ch’an la tróva mài pèra). È una frase che si dice a chi non è mai contento, a chi trova sempre qualcosa da dire (praticamente a un “sufésstich”!) e precisamente a chi “non la trova mai pari” proprio come (paragone impietoso) uno zoppo!
Bàn ch’mé al pàn. Dicesi di persona buona: cosa c’è di meglio del pane?
Per ora mi sono ricordato di queste similitudini, ma se ne ricorderò altre le aggiungerò a questo capitolo.

Paolo Canè

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